Un saggio che fa ipotesi sull’origine del monoteismo, a noi noto come religione cattolica, partendo da un testo di Freud e analizzando scenari tutt’altro che inverosimili

 

di David Donnini

UN FARAONE PARTICOLARE
Una ventina d’anni fa, mentre rovistavo nella vecchia libreria di mio padre, fra scaffali nei quali facevano bella mostra di sé le eleganti costole rilegate in tela di volumi degli anni trenta e quaranta, mi capitò fra le mani un testo di Sigmund Freud: “Mosè e il monoteismo”.
Rimasi stupito del fatto che Freud si fosse occupato di quell’argomento; ero abituato a titoli come “Psicopatologia della vita quotidiana”, o “L’interpretazione dei sogni”, e pensavo che il padre della psicanalisi non si fosse mai interessato di questioni storiche o religiose. Iniziai a leggerlo e, devo confessare, fu un impatto travolgente; rimasi talmente affascinato da ciò che scoprii che mi domandai com’era possibile che certi significativi incontri dipendessero da circostanze così casuali. E se non ci fosse stato questo libro nella casa dei miei genitori? L’avrei mai letto?
Sigmund Freud era ebreo di nascita. Egli apparteneva ad una stirpe che, in seguito alla plurisecolare persecuzione subita da parte dei cristiani, ha sviluppato per reazione un fortissimo senso della propria identità e trasmette ai propri figli un orgoglio fiero, composto ma deciso, capace di lunga rassegnazione, ma anche di uno spirito di autodifesa e di combattimento com’è difficile trovarne in altre realtà etnico-religiose.
La prima parte del libro faceva spesso riferimento ad un faraone egiziano della XVIII dinastia, Amenofi IV. Costui fu il protagonista di una eccezionale riforma politico-religiosa del sistema egiziano. L’occidente cristiano non ha la benché minima idea di quanto sia debitore, nelle caratteristiche della propria identità culturale, al faraone Akhenaton e ai contenuti della sua riforma.
Sarà bene procedere con calma e ordine, cominciando da una brevissima premessa sulla situazione dell’Egitto nel periodo che precedette l’ascesa al potere di questo singolare faraone.
Sotto il regno di Amenofi III (negli anni dal 1405 al 1377 a.C.), quando Tebe era la città reale, una fortissima casta sacerdotale, custode e amministratrice del culto del dio Ammon, aveva sviluppato, in connubio con l’aristocrazia del paese, un grande potere, ed era entrata in una posizione conflittuale con l’egemonia della corte faraonica. Per questo motivo, ma anche per una propensione caratteriale e ideologica, allorché succedette ad Amenofi III il figlio che costui aveva avuto dalla regina Tiye, Amenofi IV (intorno all’anno 1377 a.C.), l’Egitto fu protagonista del suo più grande sconvolgimento, quale nemmeno le precedenti invasioni degli Hyksos avevano potuto produrre.
In breve tempo, a partire dalla sua nomina al trono, il nuovo faraone rivoluzionò la religione di stato, spodestò la classe sacerdotale, sostituì il molteplice panteon egizio con una curiosa fede monoteistica. Si trattava forse del primissimo esempio nella storia di monoteismo di stato, incentrato sul culto del disco solare, che era chiamato Aton. Anche la capitale fu spostata ad Akhet-aton, più a nord rispetto a Tebe, e il sovrano mutò il proprio nome da Amenofi ad Akhenaton, o Ekhnaton (amato da Aton).
Nell’insegnamento di Akhenaton possiamo notare la insistente ricorrenza del termine “maet” (verità), ed egli stesso si definiva “vivente nella verità”, al punto da sovvertire la tradizione che, nelle opere d’arte, era solita presentare il sovrano in una forma stereotipata, coerente col formalismo celebrativo, e si faceva ritrarre in scene di vita familiare, mentre insieme alla moglie Nefertiti e alle figlie passeggiava e faceva offerte al dio sole.
Fu, probabilmente, un faraone dal volto umano; sappiamo che perseguì una politica pacifista, riducendo le spese militari e rinunciando alla difesa ad oltranza dei territori fuori dall’Egitto. Possiamo ragionevolmente ipotizzare che ciò comportasse una diminuzione del prelievo fiscale; possiamo anche avanzare l’idea che il popolo percepisse, nella figura del suo bizzarro faraone, qualcosa di meno lontano da sé di quanto non fossero stati i precedenti sovrani e sacerdoti. Ma queste, ci tengo a chiarirlo, sono speculazioni arbitrarie, senza un fondamento nelle prove storiche.
E’ abbastanza immediato pensare che un sistema del genere difficilmente avrebbe potuto funzionare a lungo. Infatti gli hittiti premevano ai confini orientali del regno e sfruttarono la circostanza per espandere il loro dominio a spese dell’Egitto. Molti fra i sacerdoti spodestati e gli aristocratici intuirono i pericoli della circostanza e tramarono per preparare una restaurazione del precedente regime e riconquistare i privilegi perduti. Allorché Akhenaton morì (intorno al 1362 a.C.), la moglie Nefertiti si adoperò per far salire al trono il giovanissimo genero Tut-ankh-aton, ma, alla morte della stessa Nefertiti, sacerdoti ed aristocratici approfittarono della situazione instabile e dell’inesperienza del nuovo faraone, per iniziare una rapida controriforma e per rimettere in piedi gli antichi poteri e la religione tradizionale dell’Egitto. La città di Akhet-aton fu abbandonata e la capitale fu ristabilita a Tebe. Anche il nome del faraone fu opportunamente corretto in Tut-ankh-amon, coerentemente col culto restaurato del dio Ammon. Tutti conosciamo il famoso faraone, è l’unico di cui è stata scoperta la tomba intera, inclusa la mummia, e questo ritrovamento è stato l’evento più spettacolare dell’archeologia egiziana.
E’ ovvio che, con l’avvento della restaurazione, una parte della società egiziana, che si era sviluppata alla corte di Akhenaton, visse un pesante tracollo. Possiamo facilmente immaginare in quale difficile situazione si siano trovati i suoi ex funzionari e sacerdoti, improvvisamente esautorati e, probabilmente, perseguitati.
Ora, come spesso succede in questi casi, se sono i grandi poteri a stabilire certe tappe importanti del cammino storico, sono alcuni poteri meno appariscenti (oserei dire occulti) a dirigere il cammino definitivo della storia, anche se a lunga scadenza. Infatti è assolutamente certo che l’esperienza del regno di Akhenaton aveva lasciato una traccia profonda, non solo negli interessi politici e nei rancori di quanti erano stati colpiti dalla controriforma, ma anche, e forse soprattutto, nell’inconscio collettivo, grazie all’idea di una teologia monoteistica, che sostituiva le figure fantasiose delle numerose divinità col concetto affascinante di un principio creatore unico ed universale, irrimediabilmente superiore a quello delle immagini dall’aspetto antropomorfico o animale, simboleggiato dal disco solare; in cui chiunque riconosce istintivamente la paternità di ogni manifestazione della vita terrestre.
Sebbene non ci siano elementi per riportare alla luce, dall’oblio in cui sono stati definitivamente sepolti, i movimenti e le trame di coloro che, per interesse o per adesione ideologica, simpatizzavano con le concezioni dell’ormai sconfitto sistema politico-religioso di Akhenaton, possiamo essere certi che questo desiderio di ritorno alle novità di cui l’Egitto aveva avuto un assaggio, non ha mai più abbandonato almeno una parte della società di questo paese, e ha giocato un ruolo non indifferente nella dinamica delle conflittualità interne.
GLI EBREI IN EGITTO
A questo punto, nel nostro discorso, possiamo innestare la realtà dei popoli semitici che erano penetrati in Egitto, pur non essendo egiziani, in una condizione che troppo spesso è semplicisticamente rappresentata dal termine “schiavitù”.
Già in precedenza i rozzi nomadi semiti avevano preso di mira, con le loro migrazioni di massa, altre grandi civiltà sedentarie, attratte dallo straordinario sviluppo tecnologico di cui queste erano depositarie, e della loro imponente organizzazione urbanistica e sociale. Mi riferisco ai sumeri, che furono letteralmente schiacciati da questa corrente migratoria. I semiti in questione erano gli accadi. Un grande condottiero di questi uomini (siamo intorno all’anno 2450 a.C.), protagonista di una clamorosa vittoria sui sumeri, fu Sargon. Di lui la leggenda accadica narra che era stato abbandonato dalla madre nelle acque del fiume, in un canestro di giunchi, per poi essere raccolto da un acquaiolo, su indicazione della dea Ishtar, che lo aiutò a diventare un re potente. E’ una storia che già conosciamo, anche se con altri protagonisti.
Adesso, nell’Egitto degli ultimi faraoni della XVIII dinastia, e dei primi della XIX, succedeva qualcosa di somigliante a ciò che era successo nel paese dei sumeri mille anni prima; e che succede ancora oggi nei paesi opulenti dell’occidente cristiano. Le popolazioni circostanti, etnicamente diverse, socialmente e culturalmente meno evolute, economicamente più povere (potremmo considerarli gli extracomunitari dell’epoca), entravano in Egitto e qui si stabilivano in cerca di fortuna. Gli stessi Egiziani tolleravano la loro presenza perché, non ostante gli evidenti svantaggi del fenomeno immigratorio, questa gente offriva forza lavoro a basso costo, e poteva svolgere gli innumerevoli compiti che i contadini egizi non avrebbero potuto né voluto svolgere. La Bibbia li rappresenta come un popolo che aveva già maturato una sua identità nazionale, chiamandoli ebrei. Ma questa è pura leggenda. Infatti le popolazioni che si erano introdotte in Egitto per lavorare erano molte e diverse, così come oggi, da noi, sono diversi i marocchini dai senegalesi, gli albanesi dagli slavi…
E’ probabile che, ad un certo punto, questa parte della varia umanità che componeva il tessuto sociale egiziano, abbia acquistato un certo peso e una certa coscienza di sé, maturando il bisogno di acquistare anche un senso della propria identità che, ovviamente, fino a quel momento non esisteva perché si trattava di un gruppo eterogeneo per lingua, razza e culti religiosi, in cui, probabilmente, prevaleva una componente semitica.
L’opinione di Freud, che egli illustra con grande chiarezza nel libro che abbiamo citato in precedenza, è quella che le conflittualità interne alla società egiziana e, in particolare, le opposizioni nei confronti della classe dominante, costituita dai faraoni della XIX dinastia e dalla classe sacerdotale fedele al culto restaurato del dio Ammon, abbiano potuto concentrarsi intorno alla nostalgia per la perduta riforma voluta da Akhenaton.
E’ probabile che il monoteismo incentrato sulla figura divina del sole offrisse l’idea di un concetto universalistico che si prestava alle istanze di quanti, in seno alla società egiziana, erano collocati in una posizione fortemente emarginata e subordinata. Ed è anche probabile che gli ex funzionari e sacerdoti di Akhenaton, o i loro discendenti, abbiano trovato nelle popolazioni semitiche, che vivevano in Egitto in una condizione di pesante asservimento, una comunità disposta ad ascoltarli, interessata a seguirli, a dare loro peso e importanza. Si sarebbe così determinata una simbiosi fra la parte dissidente della società egiziana, costituita da quanti avevano subito il tracollo del sistema di Akhenaton, e le popolazioni immigrate, le quali, fino a quel momento, non erano state capaci di darsi né una identità né una forza come gruppo.
Freud si è spinto fino ad avanzare l’idea che l’uomo che noi conosciamo come Mosè fosse stato un ex funzionario di Akhenaton, anche se ciò dà adito a qualche obiezione. Una di queste, per esempio, riguarda i tempi; infatti una delle probabili datazioni dell’uscita delle popolazioni semitiche dall’Egitto è intorno al 1250 a.C., durante il regno del faraone Ramsete II. Sono passati cento anni dalla restaurazione del culto di Ammon e Mosè non potrebbe essere stato un protagonista in prima persona dell’esperienza del sistema di Akhenaton. Anche se, in realtà, la datazione dell’esodo è quanto di più incerto ci sia e non è possibile porre questa obiezione come decisiva. Personalmente non credo affatto che determinare una datazione certa per il cosiddetto esodo sia molto importante, ai fini del nostro discorso; infatti non è così fondamentale che Mosè sia stato, oppure no, un funzionario del faraone Akhenaton. A noi importa soprattutto introdurre un’idea: quella che gli egiziani accomunati da un interesse nostalgico per il sistema di Akhenaton e per la sua concezione monoteistica, da un lato, e la componente emarginata della società egiziana che aveva avuto origine nei trascorsi flussi immigratori, dall’altro lato, avessero trovato un’intesa che li poneva in serio conflitto con le classi dominanti e che li aiutava a maturare una identità di gruppo.
Ora, gli interpreti di questo più che verosimile processo possono essere stati sia gli ex protagonisti del sistema di Akhenaton, in un’epoca immediatamente successiva alla restaurazione (fra il 1350 e il 1300 a.C.), sia i loro discendenti (fra il 1300 e il 1200 a.C.), ovverosia all’epoca in cui siamo soliti ambientare l’esodo biblico.
MOSE’ EGIZIANO
C’è un aspetto estremamente importante che Freud sottolinea con argomentazioni puntuali e, direi, piuttosto ineccepibili. Si tratta del fatto che Mosé sarebbe stato un egiziano e non, come si crede comunemente, un ebreo. Una delle basi di questa opinione risiede nel nome stesso: “…E’ importante notare che il suo nome (il nome di questo capo), Mosè, è egiziano. Esso è semplicemente la parola egiziana “mose” che significa “fanciullo”, ed è la contrazione di forme nominali più complesse, quali ad esempio “Amon-mose”, che significa “Amon un fanciullo”, o “Ptah-mose”, che significa “Ptah un fanciullo”, i quali nomi sono a loro volta abbreviazioni della forma piena “Amon ha donato un fanciullo”, o “Ptah ha donato un fanciullo”. L’abbreviazione “fanciullo” presto divenne una forma rapida più conveniente dell’ingombrante nome completo, ed il nome Mose, “fanciullo”, non è infrequente sui monumenti egizi. Il padre di Mosé senza dubbio prefisse al nome del figlio quello di un dio egizio, quale Amon o Ptah, e questo nome divino si perdette gradualmente nell’uso corrente, finché il fanciullo venne chiamato “Mose”” [Citazione da History of Egypt, di J.H.Breasted, in Freud, Mosè e il monoteismo, Pepe Diaz, Milano, 1952].
“…nella lingua [egiziana] “Mosè” equivaleva a “bambino”, “figlio”, “discendente”, sia in senso letterale che metaforico…” [J.Lehmann, Mosè l’egiziano, Garzanti, Milano, 1987].
E ancora: “…non ci resta perciò che il nome, il quale, malgrado la spiegazione giudaica “tratto dalle acque”, riallaccia Mosè ai nomi egiziani Tutmosi o Ramesse (Rah-mose)” [F.Castel, Storia d’Israele e di Giuda, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Mi), 1987].
C’è poi un’altra importante considerazione da fare. Il Mosè biblico ha un abito del tutto leggendario, a sostegno dell’idea che la sua identità sia il frutto di una operazione artificiale finalizzata a rappresentarlo come il padre nazionale degli ebrei . Infatti il racconto della sua nascita, coerentemente con le leggende semitiche, è la copia esatta del racconto che riguarda la nascita del grande Sargon di Accad, che fu abbandonato nelle acque e poi salvato per diventare, infine, un grande re. Evidentemente, allorché fu redatta la storia del popolo che era sfuggito dall’Egitto, si voleva che il suo condottiero possedesse i requisiti che lo rendevano meritevole, a pieno titolo, di quella dignità. Il racconto non fu scritto da storici, animati da uno spirito scientifico di cronaca, ma da apologeti, che dovevano contribuire alla creazione di una coscienza nazional-religiosa.
Ora, esistono altri elementi di sostegno alla tesi del Mosé egiziano, seguace della teologia di Akhenaton: uno è il nome che gli ebrei utilizzano spesso per riferirsi al loro dio, al posto del termine tabù (indicato comunemente dal tetragramma YHWH) che nessuno poteva pronunciare ad alta voce. Si tratta della parola Adonai, che ha la stessa radice (Adon) del dio solare di Amenofi IV (Aton). I glottologi sanno bene che le lettere t e d sono del tutto intercambiabili nelle radici etimologiche, pertanto Adon e Aton sono esattamente lo stesso nome. Si osservi quanto afferma ancora Sigmund Freud: “Il credo ebraico, come è noto, recita: “Schema Jisroel Adonai Elohenu Adonai Echod”. Se la somiglianza del nome dell’egizio Aton alla parola ebraica Adonai e al nome divino siriaco Adonis non è casuale, ma proviene da una vetusta unità di linguaggio e significato, così si potrebbe tradurre la formula ebraica: “Odi Israele il nostro Dio Aton (Adonai) è l’unico Dio”” [Sigmund Freud, Mosè e il Monoteismo, Milano, 1952].
L’altro elemento è l’aspetto della famosa “arca dell’alleanza” , che, nel racconto biblico (Es 25, 10-22), Dio aveva ordinato a Mosè di edificare e che, in seguito, sarebbe stata conservata nel tempio di Salomone fino all’invasione assira. Essa riproduce la “barca degli dei” dei templi egizi, anch’essa coi cherubini ad ali spiegate.
Ma c’è un altro elemento, senza dubbio quello di maggior peso: Mosè è comunemente considerato il padre del monoteismo, ma dobbiamo ammettere che la sua idea ha un precedente molto vicino nello spazio e nel tempo, e molto analogo, nella teologia di Akhenaton, pertanto ci rimane difficile credere che la sintesi monoteistica di Mosè non abbia alcun debito nei confronti della rivoluzione religiosa del faraone Amenofi IV.
Riassumendo:
1 – Mosè predica in Egitto, come Akhenaton 50 o 100 anni prima, una teologia monoteistica;
2 – Mosè ha un nome egiziano;
3 – Mosè ha, nel racconto biblico, una nascita assolutamente leggendaria;
4 – Un nome del dio ebraico (Adonai), ha la stessa radice del dio solare (Aton) di Amenofi IV;
5 – L’arca dell’alleanza degli ebrei è quasi identica alla “barca degli dei” dei templi egizi.
UN POPOLO ETEROGENEO
Ci troviamo davanti ad importanti constatazioni: le genti che uscirono dall’Egitto, attraverso quel processo che la Bibbia rappresenta nel libro dell’Esodo, erano costituite, per una componente, da una parte della società egiziana, quella dissidente, erede della riforma politico-religiosa di Akhenaton, fedele alla teologia monoteistica, e, per l’altra componente, da un insieme variegato di tribù, in prevalenza semitiche, che avevano trascorso in Egitto molti decenni, trovando interessi da condividere. Si trattava comunque di genti che parlavano lingue o dialetti diversi, con tradizioni religiose diverse, legate agli dei tribali. Non si trattava affatto di un popolo omogeneo, che potesse riconoscersi sotto il nome di ebrei. Ed è per questo che il racconto biblico ci testimonia la grande difficoltà di tenere unito questo insieme di persone ma, soprattutto, la difficoltà di Mosè a mantenere una egemonia su queste genti. Si ricordi a questo proposito il ritorno di Mosè dal monte Sinai, col popolo che, in sua assenza, aveva iniziato ad adorare il vitello d’oro, restaurando, chi lo sa, qualche culto tribale.
E’ molto verosimile che la componente egizia di questo insieme di genti, ovverosia gli eredi del sacerdozio di Aton, fossero quelli che la tradizione ebraica chiama “Leviti” e che Mosè ne fosse il capo.
Volendo mantenere un atteggiamento storicamente onesto, noi dobbiamo dissociarci dall’immagine biblica e riconoscere che, all’epoca dell’esodo, non esistevano affatto, o ancora, gli ebrei, intesi come un popolo che potesse essere considerata tale a tutti gli effetti, ovverosia con una sua omogeneità etnica, linguistica, culturale e religiosa, e con una storia comune oltre al fatto di avere condiviso uno stato di emarginazione e di subordinazione in Egitto. Quello che la Bibbia ci rappresenta come il momento in cui gli ebrei realizzarono il loro riscatto dalla schiavitù egiziana è, in realtà, il primo momento in cui gli ebrei iniziano ad inventarsi come popolo. Mosè fu il loro punto di riferimento, come Maometto, 1800 anni più tardi, fu il punto di riferimento per la nascita di una nazione araba. Allora possiamo quasi affermare che la Bibbia non fu un prodotto degli ebrei ma, al contrario, furono gli ebrei un prodotto della Bibbia, nel senso che i principi teologici della Bibbia furono concepiti col fine primario di offrire una base adatta a creare e consolidare l’identità etnico-religiosa di quell’insieme di tribù che si era voluto far diventare popolo.
DAVID, L’UNTO DI YHWH
I fuoriusciti dall’Egitto, governati da una casta egiziana e da un capo che aveva riciclato il monoteismo di Akhenaton, ebbero vita difficile e peregrinarono in cerca di una casa finché non giunsero nei pressi di quella striscia di territorio che sta tra il fiume Giordano e il mar mediterraneo. In quel contesto di deserti infuocati (Sinai, Negev, penisola arabica…), dove in estate il sole, picchiando sulle rocce e sulle sabbie nude, produce comunemente temperature di 50 e persino 60 gradi che arrostiscono ogni creatura vivente, le colline della palestina, che sfiorano i mille metri d’altitudine, arrestano il vento che viene dal mare e facilitano le piogge, creano un ambiente assolutamente idilliaco. Clima temperato, boschi verdeggianti, erba adatta al pascolo, stambecchi che scorrazzano, sorgenti di acqua fresca e terra fertile.
Chi non avrebbe pensato che quella sorta di oasi incredibile era un giardino preparato apposta dal creatore come dote per un popolo che godeva di una sua particolare simpatia?
Ma, ahimé, altre genti occupavano questo suolo. Tribù che non erano molto intenzionate ad accettare l’intromissione di questa nuova banda di nomadi.
Certamente i fuoriusciti dall’Egitto ebbero da affrontare prove molto dure, come del resto è chiaramente testimoniato dal racconto biblico relativo al tutto il lungo periodo che separa Mosè da David (due o tre secoli). Un periodo di lotte interne e di conflitti esterni in cui queste genti, oltre a combattere con gli indigeni che trovavano sul loro cammino, dovevano anche combattere contro quella crisi di identità che non poteva non affliggere coloro che tentavano di comportarsi come popolo, pur essendo un miscuglio molto bastardo. Ed è per questo che la società di Israele ha sempre conservato nella sua struttura una molteplicità che, nei fatti, si è espressa nella suddivisione in dodici tribù.
Ovviamente, le vicende e i disagi che questo insieme di genti ha dovuto vivere nei due o tre secoli successivi all’uscita dall’Egitto, ha influito profondamente sulla maturazione della loro concezione religiosa. Infatti, sebbene l’eredità teologica della concezione monoteistica di Akhenaton fosse il concetto di un creatore unico per tutto l’universo e per tutti gli esseri, fu impossibile evitare che queste tribù, impegnate in una dura lotta per la sopravvivenza, non sviluppassero un’immagine del dio come “proprio” dio, un dio che amava intervenire a favore del suo popolo prediletto, un dio che determinava gli esiti delle battaglie e veniva definito per questo “dio degli eserciti”.
Questa, filosoficamente parlando, è senz’altro una involuzione del monoteismo pacifista di Akhenaton, che sembrava accarezzare l’idea incredibilmente moderna di una religione universale, legata all’immagine di dio non come signore tribale, ma come signore della natura, depositario di quella potenza che elargisce e governa la vita di tutte le creature. Ma è anche vero che Akhenaton, in giovane età, come principe ereditario, si è trovato senza fatica sul trono di una antica e splendida civiltà. Per lui è stato facile immaginare una religione universale e pacifica, e non possiamo dimenticare che la sua politica idealista, in fin dei conti, è stata abbastanza rovinosa per l’Egitto.
Il dio unico di Israele non è più quel sole equanime che splende per tutti, i cui raggi scendono sulla terra come mani amorose che accarezzano tutte le creature. Il dio di Israele diventa molto partigiano, intende sterminare coloro che non vogliono essere suoi fedeli, incarica un popolo prediletto di farsi esecutore impietoso di questo piano finalizzato al risanamento spirituale dell’umanità. Questa è ovviamente la proiezione narcisistica eseguita da un gruppo umano che, a differenza di Akhenaton, non ha ereditato lo splendore di un antico e ricco paese, bensì non ha ancora una terra, non ha una storia comune, non ha altro che povertà, nemici ostili e crisi di identità collettiva.
Che altro può fare, un gruppo umano come questo, se non inventarsi un orgoglio nazional-religioso, anzi, una missione spirituale, un patto privilegiato col creatore, colmare il proprio immaginario collettivo con l’idea di essere, fra tutti i popoli, il favorito del creatore e di legittimare il proprio interesse promuovendolo al rango di una causa di giustizia universale? Non solo è una idea necessaria, ma si tratta di una idea geniale, assolutamente vincente e, sebbene il presunto favore di dio sia solo una invenzione narcisistica, chi, in Israele, avrebbe osato metterlo in dubbio? Ed è così che l’idea di un monoteismo di stato, presa in prestito da Akhenaton, che non si era rivelata utile per il vecchio Egitto, si rivelò utile per il giovane Israele; adattando però una parte della sua filosofia alle necessità di questo popolo nascente e assumendo tinte di spiccato nazionalismo.
IL REGNO DI DIO
Uno dei momenti più gloriosi della sua storia Israele l’ha vissuto quando, a seguito di brillanti vittorie contro i popoli indigeni della palestina, si è trasformato in un regno, prima sotto Shaul, capo della tribù di Beniamino, e subito dopo sotto David, un umile pastorello della tribù di Giuda, che era andato in sposa alla figlia di Shaul.
Shaul era riuscito a riunire sotto lo stesso regno solo tre tribù e non aveva stabilito una capitale, mentre David, un individuo affascinante, abile, spregiudicato, anzi, decisamente cinico, seppe riunire tutte e dodici le tribù sotto un grande regno. E poiché si trattava del regno di un popolo che aveva ormai maturato la convinzione di essere depositario di una missione affidatagli direttamente da dio, o meglio, che era cresciuto e aveva vinto proprio perché aveva trovato la sua identità e la sua forza inventandosi tale convinzione, quel regno non poteva essere altro che il “regno di dio”. E il suo compito era quello di splendere davanti a tutti i popoli della terra come luce di verità.
David fu l’unto del signore, messia (mashiah in ebraico, che si traduce christos in greco e cristo in italiano). Le sue umili origini devono in qualche modo essere promosse e la Bibbia ci racconta del profeta Samuele che va a Betlemme (città natale di Davide) e, ispirato da dio, lo riconosce come colui che regnerà su Israele e lo cosparge con l’olio dell’unzione.
David esprime un disegno ambizioso: dare una capitale grandiosa al regno di dio e erigervi un tempio monumentale, che potesse competere con la memoria degli splendori egiziani, sumeri, babilonesi… E’ sua la scelta felice di Gerusalemme come capitale, sopra uno dei colli più fortunati della palestina, fra i boschi, a ottocento metri di altitidine, dove i nemici non possono sorprendere con attacchi imprevedibili, dove zampillano sorgenti rigogliose e dove il clima estivo è quello, delizioso, di una località di vacanze di mezza montagna.
Ma David dovette anche affrontare un problema che non era per niente risolto e che dimostra, in modo inequivocabile, quanto eterogeneo fosse questo popolo e come fosse difficile tenerlo unito. David dovette superare gravi difficoltà interne, fra cui una ribellione voluta da uno dei suoi figli, Assalonne, che egli non esitò a far uccidere.
E così David non riuscì a edificare il tempio, sarà uno dei suoi figli, Salomone, che egli ebbe da Betsabea, a realizzare questa ambizione, ma i costi di tale impresa furono talmente elevati, in termini umani e fiscali, da far precipitare il problema della coesione interna, che non poteva non essere sempre minaccioso in un popolo che si era inventato tale, appiccicando insieme tribù diverse e dalle origini più varie.
E così il sedicente “regno di dio” si sfasciò troppo presto sotto il proprio peso e si trasformò in due regni: quello di Israele, nelle regioni della attuale Samaria (palestina centro settentrionale), e quello di Giuda, nelle regioni a ovest del Mar morto (palestina centro meridionale). Il regno di dio durò meno di un secolo, né mai più trovò il suo antico splendore. Furono uomini come quello che Pilato fece crocifiggere alla vigilia di una festività pasquale che, mille anni dopo David, tentarono di replicarne l’impresa, ma fallirono e finirono puntualmente i loro giorni con le mani e coi piedi inchiodati.
UN LIBRO SACRO CHE RACCONTI LA NOSTRA GLORIOSA STORIA
L’ideale monoteista, in associazione con la convinzione di essere toccati da una scelta di dio, e quindi di essere gli affidatari di una missione spirituale e i destinatari di una terra promessa, è l’ideologia che ha consentito agli ebrei di inventarsi come popolo, di svilupparsi, di risolvere i suoi problemi di sopravvivenza, di mantenere una difficile coesione, per quanto traballante essa sia stata. Ed è per questo che gli ebrei, ad un certo punto della loro storia, fra le tante altre cose geniali che hanno fatto, hanno deciso di darsi come punto di riferimento delle scritture.
Naturalmente una buona parte dei contenuti che tali scritture avrebbero dovuto esprimere era già preesistente alla loro stesura in forma grafica e, come è normale nei popoli antichi, la loro conservazione e trasmissione era stata affidata ad una tradizione orale di cui i saggi erano i depositari. Ma una scrittura da leggere in pubblico, le cui frasi fossero da imparare a memoria e da ripetere innumerevoli volte, intorno alla quale la gente si sarebbe potuta incontrare, avrebbe offerto al popolo qualcosa di assai più concreto e tangibile che non la sapienza custodita da una ristretta elite di iniziati.
Quand’è che questa necessità si presentò con una urgenza irrinunciabile? La risposta è senz’altro all’epoca della formazione del regno, quando David tolse alla tribù di Beniamino l’egemonia per darla alla tribù di Giuda e scelse, o impose, Gerusalemme come capitale. E’ questo il momento in cui gli scribi si sono rimboccati le maniche e hanno redatto i primi libri. Come minimo è questo il momento in cui diventano bianco su nero le storie di Abramo e di Isacco e, forse, molte altre cose.
Ovviamente gli scribi del “regno di dio” appena nato, sono spinti da una serie di esigenze molto precise. La coesione fra le genti del regno è precaria, la scrittura deve eliminare questo vizio congenito di Israele, essa non solo deve raccontar loro che essi sono figli dello stesso dio, ma figli di uno stesso padre umano, e Abramo, figura di cui non sapremo mai se è prodotta dalla fantasia o dalla storia, vince questo ruolo. A lui dio chiede delle prove molto dure, infine lo sceglie per dare origine al popolo a cui sarà affidata la missione.
Nel redigere queste scritture gli scribi compiono una sintesi colossale e fanno man bassa di tutto il materiale che possono raccogliere per rendere la loro opera nobile, grandiosa, venerabile, prestigiosa, autorevole. Oggi la Bibbia ci si presenta come parola di dio perché i suoi redattori furono spinti dalla necessità ideologica di farla apparire tale al giovane popolo di Israele.
Una parte abbondante della mitologia del vicino oriente confluisce in questa sintesi, non solo quella accadica, ovverosia quella dei popoli che condividevano con Israele la radice semitica, ma anche quella sumera, una etnia completamente diversa, con cui gli accadi avevano avuto a che fare a lungo. E così il quadro della genesi si apre con una scena assolutamente sumera, ovverosia con il racconto della trasgressione primordiale compiuta da Adamo e Eva nel giardino dell’Eden. E poi continua con il racconto del diluvio, che è letteralmente sottratto all’epopea sumera di Gilgamesh, poi ripresa dai babilonesi, in cui Noè si chiamava Ziusudra, Uta-napishtim, Atrahasis. Ed anche il racconto della torre di Babele ha come punto di riferimento gli ziggurat mesopotamici, mentre la confusione delle lingue sta senz’altro a rappresentare il disagio dovuto all’imbastardimento della società sumerica in seguito alla consistente infiltrazione accadica.
Un presupposto di grande importanza è la creazione fittizia di una continuità, o meglio, di una linearità. Una delle principali mistificazioni prodotte da questa esigenza è, per esempio, il fatto che gli ebrei avessero questa radice etnica unitaria e fossero un popolo prima ancora delle vicende dell’esodo. Sarebbero stati un popolo già in Egitto, un popolo schiavo e prigioniero da raffigurare con una buona dose di vittimismo ma, a parte il fatto che gli immigrati e gli emarginati della società egiziana non avranno certamente avuto vita facile né molto privilegi da condividere, si tratta di una rappresentazione del tutto falsata. Infatti non si trattava di un popolo omogeneo; né il loro stato poteva definirsi schiavitù secondo quella accezione del termine a cui siamo stati abituati dall’immagine latina, ovverosia dello schiavo inteso come oggetto subumano, che è proprietà privata del suo padrone, su cui quest’ultimo ha pieno diritto di vita e di morte. Abbiamo una subordinazione del tutto diversa, che non rispecchia questo cliché romano.
Al fine di ottenere l’effetto della continuità storica, le scritture abbondano di lunghi elenchi di patriarchi i quali, posti in fila in lunghe paginate, offrono una efficace suggestione didattica. E molti imparano a memoria, e ripetono all’infinito questi elenchi, finché essi realizzano un condizionamento psicologico che infonde nell’immaginario collettivo l’idea di appartenere ad un popolo che ha radici antiche, che ha una messaggio da trasmettere, che ha una eredità da salvaguardare.
Dopo avere costruito la figura chiave del padre della razza, Abramo, è necessario costruire quella del padre della nazione, Mosè. Ed è così che l’egiziano diventa ebreo, gli si innesta artificialmente la mitologia accadica del “salvato dalle acque”, lo si fa salire sul monte Sinai per incontrare personalmente il dio dell’universo e prendere da lui le tavole della legge. E, sebbene una componente considerevole della teologia di Mosè abbia una derivazione dal monoteismo di Akhenaton, questa radice è completamente recisa e abbandonata nell’oblio. Esattamente come mille anni dopo, quando dal monoteismo ebraico, attraverso la sintesi sincretistica di San Paolo, si stacca la fede cristiana, che recide il suo cordone ombelicale e rinnega l’ebraismo, pur avendo derivato da quello una mole fondamentale del suo bagaglio teologico e scritturale.
Il leit motiv di questa base dell’identità etnico religiosa di Israele deve essere, senza mezzi termini, la continua regia di dio dietro le quinte del teatro storico. E così è, attraverso i suoi frequenti interventi. Quando manda le piaghe in Egitto, quando apre le acque del mar rosso, quando fa scendere la manna, quando ferma il sole in pieno cielo durante una battaglia, o guida la mano del pastorello David a colpire il gigante Golia.
I protagonisti umani che svolgono un ruolo fondamentale in questa storia sono quasi sempre ammantati da una cornice miracolosa, le loro nascite sono annunciate, le loro madri partoriscono pur essendo sterili, le loro gesta non sono completamente umane. Il prodigio è la chiave di autentificazione della scrittura, il sigillo di riconoscimento dell’autorità.
Le figure di Abramo e di Mosé si completano con quella di David, il padre politico, il messia, il costruttore del “regno di dio”.
Anche in seguito, dopo lo scisma dei due regni che avvenne alla morte di Salomone, e quando il paese iniziò a subire un plurisecolare destino di dominazioni straniere, sotto gli assiri, i babilonesi, i persiani, i greci e i romani, le scritture sono caratterizzate da un fine primario: salvaguardare l’eredità nazionale, continuare a dimostrare che Israele è sempre, malgrado tutto, il popolo di dio, che il suo futuro gli riserva un riscatto. Il profetismo messianico, ovverosia l’attesa di un liberatore che ripeta la figura di David e ricostruisca il “regno di dio”, diventa un motivo ricorrente, finché si trasforma in autentica ossessione e porterà, sotto la dominazione romana, ad una crisi fatale. L’imperatore Tito, interprete della esasperazione romana nei confronti di questo popolo, visto come affetto da una patologia teocratica maniacale, farà strage e rovina degli ebrei e della loro capitale, ed essi ricadranno improvvisamente nella condizione in cui si trovavano in Egitto, come emarginati vittime di una diaspora penosa.
E’ il momento in cui l’eredità monoteistica di Akhenaton, che aveva subito una prima grande trasformazione con la sintesi biblica, subisce una seconda grande trasformazione con la sintesi cristiana. Occorreranno ancora cinquecento anni perché maturino in medio oriente le condizioni per la terza sintesi: quella coranica.
Adesso non vorrei essere accusato di ambizioni profetiche, perché è solo la ragione, e non la visione mistica, che mi suggerisce quando sarà la prossima tappa del monoteismo: quando il sistema commerciale globalistico avrà mostrato in modo drammatico la stridente contraddizione che esiste fra la promessa del benessere tecnologico e la crescita inarrestabile dei problemi planetari (demografici, economici, politici ed ecologici), facendoci vivere tragedie di dimensioni bibliche che oggi non abbiamo nemmeno il coraggio di immaginare. Allora nascerà una nuova sintesi religiosa e potrebbe addirittura darsi che l’essere supremo sia di nuovo rappresentato come un disco solare, circondato da una corona di raggi che scendono sulla terra e terminano con mani affettuose che carezzano le creature.

 

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