Pubblichiamo il ricordo del terribile giorno che causò lutti e devastazione in Campania e Basilicata nell’interpretazione della professoressa Giuseppina Esposito
Folgorazione di visioni che prendono se chiudi gli occhi e vai indietro nel tempo. Folgorazioni che si moltiplicano per mille e mille e che rimandano voci, passi felpati, case sventrate, corpi feriti o smembrati, bocche aperte al lamento o mute, zittite nel silenzio di morte, cumuli di macerie che diventano sepolcri, braccia incrociate sul petto, mani ferme e contorte, in terre dove non scorre più ombra di vita.
Folgorazioni che ti riportano agli odori acri, impastati di polvere e sangue, odori che sanno di acido e di bruciato. Odori che si attaccano alla pelle dei vivi, i sopravvissuti, quelli che la sorte ha risparmiato. Quelli a cui è dato vedere e sentire, per patire, per piangere, per urlare. Quelli a cui è dato camminare fra le rovine e fra i corpi ancora caldi, pronti a palpitare nel gelo, quello che ti succhia l’ultimo respiro, scippandoti dalle visceri l’anima, graffiando poi con le unghie assetate, i lembi degli ultimi pensieri.
Folgorazioni che ti fanno risentire i rumori di allora, rantoli di rabbia che esalano dalle tenebre, dalle profonde faglie della terra, boati che rimbombano e che scuotono, strappando dalle fondamenta palazzi, caseggiati antichi, mura millenarie e chiese. L’urlo interminabile dell’umanità smarrita, la pelle scuoiata di vallate e montagne che declinano in profondi burroni. Campanili piegati o sbriciolati, svuotati del suono di campane, mentre continua a diffondersi per l’aria, ovunque, lo strepitio dello schianto. La terra che trema usa suoni cupi, ossessivi. Ha svegliato dal sonno i suoi latrati latenti tenuti a bada a comando. Le fanfare dei dèmoni eseguono, in marcia, la funebre musica che attoniti ascoltano anche i rami spezzati da cui fuggono via in rapidi voli gli uccelli. {loadmoduleid 276}
Folgorazioni che ti conducono nuovamente a sentire lo scavo con le nudi mani, a raschiare il terreno in cerca di qualcuno da riportare in vita;mani che sanguinano fra il sangue e che, senza posa, scavano nei resti delle case, afferrando la quotidianità in mille oggetti, disseminati come misere cose denudate:qui un quadro, lì dei quaderni, più in là lampade, bambole e giochi e poi, come giri lo sguardo, rimanendo in ginocchio, trovi lacerti di cose appese, rimaste in bilico a testimoniare, ciò che fino a pochi istanti prima, era il contorno all’intimo del vissuto, appartenuto a qualcuno.
Niente è offuscato di quel giorno. Tutto ritorna e altro ancora si potrebbe raccontare di quello che vivemmo allora. Il cielo, per esempio, che colore aveva il cielo quel 23 Novembre di tanti anni fa? Ricordi anche tu come ricordo io? Era rosso di fuoco pure se il buio era già sceso. Sembrava eruttare come un vulcano impazzito. Un cielo feroce così a me non era apparso mai. E le stelle? C’erano le stelle quella sera? le ultime che vidi, se le inghiottì nel suo fuoco l’incendio che accese il cielo.