Fra le tante cose storte in cui s’incappa, volenti o nolenti, lungo il cammino quotidiano in questa moderna modernissima valle di lacrime ce n’è una che proprio non la deglutisco ed è l’uso improprio sciatto superficiale illogico corrotto e corruttivo delle parole, specie da parte di chi su quell’uso ha fondato il proprio lavoro e la propria missione professionale, ad esempio gli avvocati, i giornalisti, gli insegnanti, i conduttori televisivi etcetera. I quali scrivono o proferiscono determinati vocaboli senza por mente al loro significato reale o per ignoranza o per moda o per esibizionismo, per sentirsi a la page, inseriti in un convenzionale quanto idiota circuito mediatico di tweet e di chat, trascurando o magari a volte maliziosamente procurando l’impatto fuorviante su chi legge o ascolta.

Per far meglio intendere dove voglio andare a parare farò qualche esempio che fu di esilarante attualità quando facevo il sindaco e su cose così, devo dire, mi sono abbondantemente divertito e non me ne pento. Un giorno una giovane giornalista, in una delle quotidiane interviste che mi facevano non avendo di meglio da fare, mi disse, sindaco la piazza del Municipio è “infestata” dai cani. Al che le dissi, guardi che si sbaglia, è “abitata” dai cani ed è “infestata” dagli uomini. E quando i consiglieri della mia maggioranza, lamentandosi del mio disinteresse per il partito e che mi dedicavo esclusivamente all’amministrazione del Comune e della città, mi dicevano che loro dovevano fare “la politica”, replicavo, perché io che faccio il verdummaro? E quando mi chiedevano che dovevo fare “un tavolo” rispondevo che avevano sbagliato indirizzo, si dovevano rivolgere a un falegname, allora chiedevano “il rimpasto” della Giunta e ancora una volta sbagliavano palazzo, perché li mandavo a cercarsi un pizzaiolo. E così capitava anche con tutte le cretinerie che venivano a dire in consiglio comunale e scrivevano sui giornali. Non me ne tenevo una, me lo disse anche Lino Picca, l’avversario più colto serio e leale che ho avuto il piacere di frequentare, mi disse, ma tu non rispondere sempre, qualche volta tieniti la posta.

E fu così che fra tavoli, falegnami, rimpasti eccetera me ne mandarono a casa. Ma che ci posso fare, non è colpa mia, è più forte di me, non sopporto la stupidità lessicale perché essa è il segno della stupidità mentale.

Veniamo a noi. Perché ho fatto questo lungo paraustiello? Perché ho letto sui giornali e ho udito in televisione che la povera ragazza di Sarno è stata violentata da un “branco”. Oibò, perché branco?

Sono andato a rileggere il vocabolario e ho appreso che il “branco” è un gruppo numeroso di animali della stessa specie, di lupi, di maiali, di leoni, di elefanti, che stanno insieme per difendersi o aiutarsi reciprocamente nella ricerca di cibo e di sicurezza. Ma accostare analogicamente al branco quel gruppo di maschi umani che ha perpetrato quell’odioso stupro collettivo è improprio, ingiusto e, tutto sommato, riduttivo della gravità del fatto, come se simili cose fossero prerogativa degli animali e non degli uomini, quando invece i branchi veri simili cose non le fanno. L’accoppiamento collettivo non esiste nel branco, ciascuno ha il suo partner col quale si accoppia separatamente e discretamente, senza dar fastidio agli altri e solo se è accettato dal partner dopo aver esibito la propria forza o la propria bellezza. Come Darwin ha dimostrato mediante la teoria della selezione sessuale, addirittura alcuni caratteri, come i baffi o le corna o i colori smaglianti o il bel canto sono stati sviluppati dalle specie proprio al fine di conseguire il gradimento e il consenso della femmina all’accoppiamento, senza il quale niente da fare.

Carlo Levi lo ha insegnato, “le parole sono pietre”, pietre perché pesano, colpiscono, feriscono, difficili da rimuovere e a volte rotolano rotolano a valanga facendo danni a persone e cose, quindi per favore, a proposito di stupro collettivo non si parli di branco, perché quello purtroppo era un gruppo di esseri umani, membri di una comunità che si presume civile ed avanzata, in tempo di pace, e non di una soldataglia medievale durante il saccheggio.

Aldo Di Vito
[email protected]

Di Gigi Di Mauro

Giornalista con esperienza quasi quarantennale, è educatore e pedagogista clinico. Da oltre un ventennio si dedica allo studio della storia comparata delle religioni, ottenendo nel 2014 dal Senato accademico dell'MLDC Institute di Miami una laurea Honoris Causa in studi biblici. È autore di alcuni saggi, tra i quali uno sulle bugie di storia e religione

Lascia un commento