Premiato al Festival di Cannes, il film di Jacques Audiard racconta la tensione dell’integrazione nella periferia violenta di Parigi, facendo più epica che cronaca
di Antonio Maiorino
“Dheepan” di Jacques Audiard approda nelle sale italiane con un passaporto di tutto rispetto: la Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes. È una storia di passaporti sudati, anzi, insanguinati: Dheepan è un soldato in fuga dalla guerra civile in Sri Lanka, in cerca di rifugio nella periferia di Parigi. Per farsi accettare, s’inventa una famiglia, associandosi ad una giovane donna e ad una ragazzina mai viste prima. Due grossi problemi: la convivenza non funziona e la banlieu parigina è quasi più violenta del paese d’origine.
La poetica di Jacques Audiard è dichiarata: “Il cinema deve produrre immagini ed emozioni che ci consentano di guardare la realtà in modi differenti”. Differente, in “Dheepan”, è innanzitutto il punto di vista, ossia lo sguardo sulla Francia da una prospettiva altra, quella di tre immigrati alle prese con una difficile integrazione ed un’altrettanto ardua sopravvivenza. Il rischio era quello di filmare un edificante pistolotto, ma il regista francese, proprio attraverso l’arma espressiva dell’emozione, gioca più di pistole, confezionando non solo una storia densa di contenuti, ma anche un thriller dalle tinte fosche, dai ritmi serrati e dalle esplosioni improvvise.
Per quanto la svolta adrenalinica del film sia quasi furiosa, la costruzione della suspense è metodica, paziente. Lo spettatore pigro quasi rischia il collasso nervoso, di fronte ad una vicenda che per larghi tratti sembrerebbe piuttosto un dramma familiare – nonostante la famiglia sia finta; con la complicazione, peraltro, della lingua originale (con sottotitoli) per i dialoghi nell’ambiente domestico, scelta nutrita dalla volontà di delineare un quadro estremamente realistico e credibile.
Il ritratto d’ambiente che ne scaturisce è vivo, penetrante: negli occhi di Dheepan si compone a poco a poco il mosaico della Francia contemporanea con tutte le sue contraddizioni, mentre si decompone il suo equilibrio mentale, che deflagra in un finale truculento. La miccia è proprio quella periferia che fermenta di tensioni: altro che rifugio. La storia di sopravvivenza slitta dal piano culturale a quello della history of violence, con tutte le conseguenze drammatiche del caso, ma anche con sottile e destabilizzante arte della provocazione. Ad Audiard il merito di aver raccontato la realtà facendo epica più che cronaca, a tutto vantaggio del cinema, ma non a discapito della realtà.