Il crollo nei valori di mercato del petrolio greggio negli ultimi mesi – con una decurtazione netta del 62,86% – è stato concausa scatenante dello scompiglio sui mercati mondiali per i quali il petrolio resta un riferimento ad oggi ineludibile

Un taglio del valore nominale del debito della Grecia “non è in discussione” e “non ci sarà”. Lo ha detto senza mezze misure Klaus Regling, che, per la cronaca, è il presidente dell’Esm (European stability mechanism, ovvero Fondo salva-Stati europeo). 

La sua è un’affermazione che ha le sue basi logiche e di principio in virtù delle quali si ribadisce che il debito degli Stati va comunque onorato. Pur con tutti gli accorgimenti connessi al possibile allungamento delle relative scadenze ed alla riduzione ai minimi termini del tasso d’interesse applicato.
Tutto bene, anzi benissimo tenuto conto delle difficoltà finanziarie transitorie che possono interessare uno o più Stati nazionali, in specie se appartenenti ad una coalizione stretta di Stati quale l’Unione Europea. Non si discutono le soluzioni del tipo indicato (allungamento delle scadenze e riduzione del tasso d’interesse) specie se in un’ottica di comprensibile, auspicabile solidarietà tra i popoli legati da una moneta comune, da una Banca centrale aggregante, da un Parlamento europeo votato a maggioranza e da un vertice di governo (Commissione Europea) comunque condiviso.
Non mi pare che questo atteggiamento e questa soluzione fossero stati applicati all’inizio del 2012, quando la Grecia, con una operazione a dir poco avventata e scorretta, rovinò migliaia di risparmiatori privati, mediante l’abbattimento perentorio ed illegale del valore nominale dei suoi titoli di Stato nell’ordine dell’80 per cento.
Da sottolineare, tra l’altro, che molti titoli avevano di per sé scadenze lunghe (10 – 15 anni), non incidevano affatto sulla transitoria difficoltà dei conti pubblici di Atene e non la rendevano più gravosa. 
Per gli stessi titoli, semmai, era ipotizzabile, come sopra accennato, una decurtazione dei tassi di interesse applicati. I risparmiatori, ben informati, avrebbero compreso e condiviso lo sforzo di risanamento del Paese ellenico ed avrebbero accettato un minor rendimento del loro investimento di lungo termine.
Tutto questo all’epoca non è stato fatto. Molto probabilmente le Istituzione europee di Francoforte e Bruxelles hanno anche applaudito al tipo di approccio assunto da Atene che, in qualche modo, “metteva a posto ed azzerava il problema” senza implicazioni e fastidi per le stesse autorità comunitarie. 
Grossolano errore di valutazione, questo, che ha annientato la fiducia dei cittadini e dei risparmiatori europei verso i loro rappresentanti politici e verso i responsabili centrali in materia monetaria.
Oggi che i titoli della Grecia sono in massima parte in mano a banche e pubbliche istituzioni – Banca Centrale europea in primis – si professa apertamente il principio sacrosanto ed il convincimento che “il valore nominale dei titoli di Stato della Grecia non si tocca”.
Troppo tardi ed assai conveniente tenuto conto del contesto storico! 
Piuttosto, perché non si indennizzano i risparmiatori europei in possesso di obbligazioni dello Stato ellenico all’inizio del 2012?
Morale della favola: i risparmiatori, quelli piccoli in particolare, oggi come oggi contano poco più di niente!
Il risparmio non è più un bene fondamentale da preservare, incentivare e proteggere, così come previsto in tanti documenti e testi ufficiali a carattere internazionale e come specificamente “ordinato” dalla nostra Carta Costituzionale che recita esplicitamente all’art. 47: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.” 
Che il risparmio non sia più un bene interessante lo si evince anche dai comportamenti e dalle soluzioni di carattere monetario propinate dalle più importanti banche centrali di tutto il mondo. 
Il riferimento, in maniera particolare, va alla Federal Reserve degli Stati Uniti (FED), alla Banca Centrale del Giappone (Bank of Japan-BOJ), alla Banca Centrale Europea (BCE), alla Banca Centrale della Gran Bretagna (Bank of England-BoE) e, da tempi recenti, ultima arrivata, alla Banca Centrale Cinese (People’s Bank of China-PBC).
Questi maxi-istituti centrali con connotazioni e “collegamenti” a livello mondiale mettono in atto i loro “quantitative easing” e cioè, detto semplicemente e volgarmente, stampano monete a piacimento immettendo la relativa liquidità nei mercati di riferimento e pilotando in tal maniera i prezzi (inflazione), i tassi d’interesse (e quindi l’onere annuale sostenuto dagli Stati sui rispettivi, giganteschi debiti pubblici o debiti “sovrani”), il valore di scambio della loro valuta nazionale (rapporto di cambio), ecc. ecc.. 
Con ciò, ovviamente, falsano artificiosamente i termini di riferimento dei mercati, annullando completamente la potenzialità del risparmio messo da parte dai solerti risparmiatori che, sovente, vengono addirittura considerati come causa concomitante se non principale dell’abbassamento del livello dei consumi nazionali e della mancata crescita della ricchezza nazionale prodotta (PIL) . 
Tutto quanto sopra in dispregio dei possibili effetti perversi, tra i quali, in primo luogo, la creazione di pericolose bolle finanziarie ed immobiliari delle quali, in questi giorni, stiamo verificando la portata e la pericolosità. 
Mi riferisco alle vicende incresciose che nella seconda parte del corrente mese di agosto hanno investito il mondo finanziario (e non solo quello finanziario), con epicentro la Repubblica Popolare Cinese ed il vistoso, correlato calo della borsa valori di Shanghai. Il relativo indice “SSE Composite Index” dal valore segnaletico di 5.166,35 registrato il 12 giugno 2015 è precipitato a 2.927,29 il 27 agosto 2015 con un calo del 43,34%. Ne è seguito, a cascata, un forte ripiegamento che ha interessato le borse valori di tutto il mondo. 
Il crollo nei valori di mercato del petrolio greggio negli ultimi mesi – dal massimo di 107,28 dollari per barile del 15 giugno 2014 al minimo di 39,84 dollari del 27 agosto 2015, con una decurtazione netta del 62,86% – è stato concausa scatenante dello scompiglio sui mercati mondiali per i quali il petrolio, piaccia o non piaccia, resta un riferimento ad oggi ineludibile. 
Queste sono vicende ed insegnamenti da non trascurare, pur avendo in debita considerazione le parole di Romano Prodi che, a proposito di detti accadimenti finanziari, nei giorni scorsi ha dichiarato: «Non presto molta attenzione ai crolli dei mercati borsistici ed alle successive risalite, preferisco concentrarmi sui problemi reali della Cina. D’altra parte il mercato cinese era cresciuto del 150 per cento in un anno: se si sgonfia un po’ non c’è niente di male».
Resta il fatto acclarato che nei tanti articoli letti e considerati in questi giorni di “frastuono finanziario mondiale” non si rileva e non si valorizza più la parola “risparmio”. 
Con ciò, ovviamente, accantonando e sminuendo in maniera clamorosa ed antistorica, l’azione di quei cittadini operosi e prudenti che mettono da parte una quota del loro reddito ponendolo a disposizione della comunità di appartenenza, ivi compresa la Grecia, considerata a torto – visto quello che è accaduto nel 2012 in danno dei risparmiatori ed il trattamento arrogante loro riservato – membro della grande famiglia di popoli costituenti l’Unione Europea.

Sàntolo Cannavale
www.santolocannavale.it

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