Il racconto di un operatore che si trovò a fronteggiare in prima linea lo scoppio della pandemia. Tra paura, impotenza e vittime in costante aumento. Cos’è cambiato oggi
Lo scorso anno veniva istituita nel nostro Paese la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia di Coronavirus, che ricorre oggi, 18 marzo.
Gli italiani che hanno contratto il virus in Italia sono più di 13 milioni, con 157442 decessi, quasi 10mila solo in Campania. Numeri che sconvolgono e che ci riportano inevitabilmente con la memoria a quei giorni in cui tutta l’Italia era in quarantena; contavamo centinaia di morti al giorno e dovemmo tristemente assistere in tv allo sfilare dei mezzi militari che portavano via le salme dagli ospedali ormai al collasso. Ma qual è il ricordo di quei giorni di chi quell’emergenza l’ha vissuta in prima persona, sul campo, non attraverso uno schermo? E com’è cambiata oggi la situazione negli ospedali?
La testimonianza di un professionista del nostro distretto sanitario che chiameremo, con un nome di fantasia, Chiara.
Dove si trovava a svolgere servizio nei primi mesi della pandemia?
Lavoravo al Ruggi, all’Ospedale Da Procida, nel reparto di terapia subintensiva covid.
Qual era lo stato d’animo suo e dei suoi colleghi in quei giorni in cui in breve tempo degenerò la situazione, tra lockdown totali, ospedali affollati e vittime in costante aumento?
Inizialmente lo stato d’animo era quello di voler dare il massimo per essere d’aiuto in una situazione così, voler fare la tua parte, dare il tuo contributo. Era tutto molto enfatizzato dalla situazione generale. Poi c’è stato lo scontro con la realtà. Fin quando lo vivi da fuori, sembra tutto molto eroico. Quando lo vivi dall’interno, ti rendi invece conto di avere un ruolo limitato rispetto alla patologia; anche perché, soprattutto all’inizio, le terapie erano tutte un po’ per tentativi. All’inizio, a marzo, quando non si sapeva neanche ancora cosa fosse effettivamente, cercavi di curare il sintomo, ma come del resto ancora oggi, una vera terapia che possa curare dal virus non c’è. Per cui mi ricordo che le sensazioni quando ti chiudevi alle spalle la porta del reparto, erano di smarrimento, perché ti rendevi conto di essere impotente, che quel che potevi effettivamente fare era davvero limitato. Cercavi di portare conforto come meglio potevi (un sorriso, uno sguardo) alle persone che erano davvero spaventate perché non sapevano cosa sarebbe successo loro di lì a poco. Quel che mi ricordo come sensazione principale, oltre l’impotenza, era la paura. Di poter contagiare te stesso, ma soprattutto per gli altri, di portare qualcosa con te a casa, tant’è vero che la prima settimana personalmente l’ho vissuta malissimo. Tornavo a casa, mi chiudevo in stanza, mangiavo da sola e per i successivi tre mesi ho deciso di trasferirmi, isolarmi dal resto della famiglia. Non ho visto nessuno che non fossero i miei pazienti o i miei colleghi. Eravamo veramente terrorizzati.
Quando fu istituita questa giornata, un anno fa, il ministro della salute Roberto Speranza dichiarò: “il miglior modo per ricordare le vittime di questa pandemia è quello di tornare ad investire nel servizio sanitario nazionale, riformandolo e ponendo al centro la parola prossimità”. È accaduto? Lo Stato è stato più presente e vicino al vostro comparto in questo ultimo anno? Cos’è cambiato?
Viviamo in Italia, secondo lei, dichiarazioni a parte è cambiato qualcosa? Assolutamente nulla. Investimenti nella sanità non ne sono stati fatti. Sono vincitrice di 3 concorsi e allo stato attuale non ho ancora un contratto. Le graduatorie non scorrono, i contratti vengono rinnovati di 6 mesi in 6 mesi, contratti scaduti a marzo non sono stati ancora rinnovati. Siamo precari, senza garanzie, senza tutele. Tutto come prima insomma. L’unico investimento fatto su di noi per venirci incontro è stato quello di dare la possibilità alle aziende di stabilizzare il personale che ha compiuto 18 mesi a tempo determinato, ma viene tutto in ogni caso demandato alla discrezionalità dell’azienda. Quindi se l’azienda decide di tenerti, può far valere la legge dei 18 mesi e ti stabilizza, altrimenti no. Quindi sulla carta hanno premiato quelli che si sono lanciati nell’emergenza, ma di fatto siamo ancora così, in balia degli eventi.
Ad oggi, a fronte anche dell’importante campagna vaccinale messa in atto nel nostro Paese, com’è cambiata la situazione negli ospedali? Dal primo aprile il Governo conta di varare misure che gradatamente ci permetteranno di uscire dallo stato di emergenza. Come professionista del settore sanitario ritieni sia una misura coerente con lo stato attuale della pandemia? Possiamo dire di essere finalmente usciti dall’emergenza?
La vaccinazione ci ha veramente dato una mano importante per gestire le complicanze gravi della malattia. Un soggetto vaccinato ha molte meno possibilità rispetto ad un non vaccinato di aggravarsi ed andare ad occupare un posto in terapia intensiva, che poi è quello il parametro con cui si valuta la ripresa o meno della pandemia. I numeri in questo momento sono in aumento, perché chiaramente non ci sono limitazioni nei contatti interpersonali, tutte le attività hanno ripreso, anche i mezzi pubblici, le scuole, le palestre, le discoteche. Ed è chiaro che più contatti interpersonali ci sono e più c’è possibilità di contagio. Per cui, in questo momento, allentare ulteriormente la presa, credo sia ancora una mossa azzardata. Ritornare a quella che prima era la normalità non credo sia la soluzione giusta da adottare in questo momento. Non siamo ancora fuori dall’emergenza per quanto mi riguarda, non credo proprio e non credo sia quindi una soluzione togliere quelle che sono attualmente le poche misure di contenimento ancora in vigore, ovvero l’uso della mascherina, che è poi l’unica arma di difesa che abbiamo. Io,personalmente, non sono quindi d’accordo.
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