Che il “Limone Costa d’Amalfi” sia il prodotto d’eccellenza, forse quello più conosciuto al mondo con quello di Sorrento, è noto a tutti. Oggi è ingrediente cardine della gastronomia

Dalle verdeggianti colline della Costiera Amalfitana si stagliano i terrazzamenti di limoneti. L’agrume è usato nella cucina e nella pasticceria (con esso si produce il liquore souvenir per i turisti venduto ovunque ormai, artigianale e non).

La presenza delle piante di limone in costiera, ampiamente documentata, risale almeno all’ XI secolo, soprattutto dopo aver scoperto l’efficacia curativa dell’agrume contro lo scorbuto. Per tale ragione, alla luce degli studi della Scuola Medica salernitana, la Repubblica d’Amalfi dispose che a bordo delle navi vi fossero provviste dell’agrume. Ciò portò ad accrescerne la coltivazione.
Nel corso dei secoli, per la scarsa disponibilità dei terreni per l’impianto di nuove piante e l’assottigliarsi delle nuove piantagioni, si rese necessaria l’opera dell’uomo al fine di sistemare il terreno (a terrazze) ed intensificare i sesti d’impianto.
Prodotto IGP, denominazione che impone caratteristiche ben definite, dal colore al profumo, nonché all’area geografica di coltivazione che comprende, per intero, il Comune di Atrani e parzialmente i Comuni di Amalfi, Cetara, Conca de’ Marini, Furore, Praiano, Positano, Ravello, Maiori e Minori. Proprio tra questi ultimi due Comuni una strada dedicata alle “furmechelle” – “Via portatrici di limoni” – donne che dalle colline scendevano a valle con il peso delle grandi ceste colme di limoni da portare, su e giù, tra scale e scalini, sentieri e viottoli serpeggianti tra le rocce. {loadmoduleid 284}Scendevano attraverso i tornanti con in testa le sporte cariche di “sfusato amalfitano”, a quel tempo principale fonte di reddito. Come formiche, procedevano in fila (ecco perché “furmechelle”) attraverso gli stretti sentieri che collegano i piccoli paesi e borghi, incrociando chi risaliva lo stesso sentiero con la sporta vuota e da riempire per ripetere il viaggio. Si utilizzava il ciuffo, una specie di cuscino di iuta, imbottito di paglia: veniva posto tra il collo e la nuca e aveva la funzione di distribuire il peso della sporta in maniera ottimale per poter affrontare il cammino. Un carico mai leggero: robuste o esili, ognuna affrontava, con andatura ferma e sicura, il percorso. Oggi non ci sono più le “furmechelle”, ma restano il ricordo e le testimonianze di un bene, allo stesso tempo, figlio e genitore del territorio.

Di Gigi Di Mauro

Giornalista con esperienza quasi quarantennale, è educatore e pedagogista clinico. Da oltre un ventennio si dedica allo studio della storia comparata delle religioni, ottenendo nel 2014 dal Senato accademico dell'MLDC Institute di Miami una laurea Honoris Causa in studi biblici. È autore di alcuni saggi, tra i quali uno sulle bugie di storia e religione

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