Il leader dei Tammorrari del Vesuvio si racconta: tanto orgoglio e tanto rammarico per il proliferare di gruppi che sta togliendo qualità a un mondo che era fatto soprattutto di studio e ricerca
Si chiama Simone Carotenuto ed è l’anima dei Tammorrari del Vesuvio, una delle poche voci veramente qualificate che continuano a tramandare la musica folcloristica campana dandole anche un nuovo volto fatto di sperimentazione.
Ma, come specifica lo stesso gruppo nelle sue presentazioni, durante i concerti vengono proposti “disegni melodici che abbracciano paesi come la Grecia, l’Andalusia, i Balcani e ne fondono i suoni“.
Voce storica della Nuova Compagnia della Tammorra, Simone, scafatese purosangue, ha pubblicato fino ad ora quattro album con i Tammorrari del Vesuvio, la cui formazione attuale vede insieme a Simone Carotenuto e a Pina Ascione (voci) Luca Masi (basso elettrico e contrabbasso); Peppe Pacelli (chitarra acustica a 6 e 12 corde); Antonio Mancusi (strumenti a fiato); Enzo Mazzarella (fisarmonica); Giovanni Vicidomini (plettri); Giovanni Marra (batteria); Nobile Masi (tamburi a cornice).
– Sul sito del gruppo non ci sono notizie biografiche su di te. Soddisfa le nostre curiosità …
«Età? Un po’ più di 60 – risponde con un pizzico di civetteria – La passione per il canto l’ho sempre avuta, da piccolo. A 14-15 anni ero la voce di un gruppo che faceva rock americano. Papà, nel contempo, era ballatore e cantatore di tammurriate, la mamma era danzatrice di tammurriate, e la domenica, nella frazione Zaffaranelli qui, Scafati, c’era un cortile in cui in genere la domenica quella società contadina si riuniva cantava e ballava tammorriate. Capiamo che non avevano gli abiti fastosi moderni: erano contadini che lo facevano per passione e che usavano, stanchi di una settimana di lavoro nei campi, piccole movenze per animare la musica. Io inizialmente rifiutavo quella musica perché rappresentava la mia origine povera, dove sette figli vivevano con i genitori in una stanza di 6 metri per 6, con le stalle attaccate alla casa, il papà carrettiere… Con il tempo poi ho cominciato a capire il valore di questo genere grazie alla Nuova Compagnia di Canto Popolare, ai Musicanova di Eugenio Bennato, per cui decisi di fare il salto e, invece di inseguire il sogno americano, iniziai a dedicarmi a quello che rappresentava la mia cultura. E iniziammo ad alimentare la conservazione di quella musica che, diversamente, sotto la cenere sarebbe pian piano scomparsa, rendendola più vicina alla modernità attraverso un processo di innovazione in cui il nostro Giovanni Vicidomini ha avuto un ruolo importante».
– Secondo la tua opinione un gruppo oggi potrebbe ripetere il clamoroso successo di Nuova Compagnia di Canto Popolare o Musicanova?
«E anche dei Media Aetas… Se parliamo specificamente di quel tipo di musica assolutamente non può succedere più. Se poi parliamo di folk rock, potrebbe anche nascere un gruppo più grande di 24 grana, di Bandabardò ed altri, ci sta. Ma non è certo il nostro folk! Quello che facevano la NCCP e i Musicanova ha girato il mondo. Altri no di certo. E non dimentichiamo mai il ruolo che ha avuto, per far conoscere nel mondo la musica folk campana, Roberto De Simone, che è stato anima anche dei Media Aetas».
– Fino a quanto ci si può spingere a sperimentare sulla musica tradizionale?
«Dipende innanzitutto dai musicisti che hai – risponde secco – Se il musicista è bravo, pur rimanendo saldamente ancorati alla tradizione, si può spaziare ovunque. Poi, con noi stasera abbiamo qualcuno cui puoi domendarlo direttamente: Giovanni Vicidomini. Ha fatto delle cose meravigliose nel settore, trasformando alcuni canti della tradizione in pezzi di musica classica di alto livello».
– Per un settore così particolare come quello della musica folcloristica campana, se dovessi esprimere un desiderio, quale sarebbe?
«Domanda da cento milioni di euro – ci risponde con un sorriso ampio – Vorrei tornare di nuovo agli anni ’90, quando la gente faceva musica per passione o perché era competente in materia. E il pubblico che veniva ad ascoltare era un pubblico esigente, che quando si rendeva conto che il tuo livello era basso girava i tacchi e andava via senza nemmeno ascoltarti. Era un pubblico fatto di cultori della tradizione, che venivano anche per ascoltare il tuo modo di interpretare un brano e come ti interfacciavi con loro. E il rischio di ricevere pomodori addosso se non eri all’altezza era davvero forte. Ma so che non è possibile, che lo spettatore non è più esigente, che quei tempi non potranno ritornare».{loadmoduleid 289}