Nel rispetto del dovere di convivenza, solo dopo il provvedimento di assegnazione dell’immobile ad opera del giudice, si può impedire al proprio partner di accedervi. Sono fatti salvi gravi motivi, tra i quali rientra la violenza, ma non il tradimento
di Danila Sarno
Anche se si scopre di essere stati traditi, non è lecito cacciare di casa il proprio coniuge improvvisamente, senza prima rivolgersi al giudice. Come precisato dalla Corte di Cassazione nella sentenza numero 40383 del 2012, tale comportamento integra il reato di violenza privata e comporta una lesione del possesso. Il motivo? Chi viene buttato fuori dalla dimora familiare è privato del diritto a fruire dei propri beni.
Bisogna ricordare, infatti, che tra i doveri derivanti dal matrimonio vi è anche quello di convivenza: nella casa coniugale si svolge la vita di comunione della coppia, per cui gli sposi hanno entrambi diritto al possesso dell’immobile, a prescindere da chi sia effettivamente il proprietario dello stesso. Ciò vale anche per i conviventi di fatto. Esistono due sole ipotesi in cui il dovere di coabitazione viene meno: da un lato, quando è il giudice a pronunciare un apposito provvedimento a riguardo e, dall’altro, quando sussistono gravi motivi (tra i quali rientrano ad esempio la violenza e il pericolo per l’integrità fisica, ma non anche l’allontanamento temporaneo dall’abitazione o il tradimento).Di conseguenza, in mancanza di gravi ragioni che consentano di qualificare la condotta come legittima difesa, non si può semplicemente sbattere fuori di casa il proprio partner, magari cambiando la serratura. Si dovrà invece richiedere al tribunale, accanto alla separazione, anche la pronuncia di un provvedimento di assegnazione della casa coniugale. Solo il giudice, infatti, può porre ufficialmente fine al matrimonio e allontanare uno dei due coniugi dall’abitazione.
Agire autonomamente, prima della sentenza di separazione, comporta peraltro gravi conseguenze: oltre all’applicazione della sanzione penale prevista per il reato di violenza privata, si potrebbe andare incontro ad una condanna al risarcimento dei danni, alla perdita del diritto all’assegno di mantenimento e, soprattutto, ad un’azione di reintegrazione del possesso (che consentirebbe a chi è stato cacciato di casa di esservi riammesso).
La conferma di quanto detto si rinviene nella già citata sentenza numero 40383 del 2012, con la quale la Corte di Cassazione ha condannato un uomo per non aver consentito alla moglie di fare ritorno sotto il tetto coniugale, dopo che la stessa era andata a vivere temporaneamente dai propri genitori per sfuggire ai continui litigi e maltrattamenti. Si legge nella motivazione che la donna, anche se temporaneamente trasferitasi altrove, aveva il diritto di tornare e che il marito non poteva escluderla dalla casa coniugale senza prima agire in giudizio ed ottenere un apposito provvedimento di assegnazione.