Era l’11 dicembre del 1975 quando il Risorgimento Nocerino pubblicava la traduzione del professor Salvatore Pentone di un passo del libro di Ferdinand Gregorovius, “Wandernjahren in Italien”
Sono passati 46 anni, ma grazie alla dottoressa Anna Cristiana Pentone, dirigente scolastica del Comprensivo “Angelo e Francesco Solimena”, possiamo riproporre ai nostri lettori il brano dal libro di Gregorovius che descrive la tragedia della regina Elena, vedova di re Manfredi, morta nel nostro castello nel 1271. Il professor Salvatore Pentone, papà della dottoressa Anna, tradusse il brano che raccontava il viaggio di Gregorovius a Nocera nel 1875.
« … Non sappiamo dove fu condotta la regina (Elena, vedova del re Manfredi; n.d.r.) dopo quel convegno; sembra molto probabile che da Lago Pesole sia stata subito portata nel castello di Nocera, città, che si trova tra Castellammare e Salerno. Il primo documento, che parla della sua presenza colà, è uno scritto di Carlo, da Capua, del 13 Marzo 1267; con esso nominò il cavaliere Radulfo de Faiello castellano di Nocera e gli assegnò, contemporaneamente, la custodia della vedova di Manfredi, colà rinchiusa, senza che i figli avessero menzione nello stesso.
Si è sostenuto che Elena fu subito separata da costoro; che Carlo fece portare i figli maschi di Manfredi, prima, nel castello di Canosa e poi a Castel del Monte, mentre fece tenere in prigione a Napoli, la principessina Beatrice. Di una spietatezza così efferata, quella di strappare questi piccoli alla madre, poteva benissimo essere ritenuto capace il re Carlo, anche se il fatto in sé stesso, almeno per l’anno 1266, non sia confortato da prove sicure. Non ci fu nemmeno un sentimento religioso o umano, che muovesse l’Angiò onde risparmiare la vita ai piccoli eredi di Manfredi, perché sarebbe bastato poco per dare ad essi il destino dei figli di Eduardo.
Egli li lasciò vivere, perché, all’inizio gli sembrarono innocui per la loro tenera età, e, in seguito, persino, utili per ragioni di stato. La regina Elena rivisse, nella prigione di Nocera, il rapido successo e l’improvvisa caduta di quel Corredino, a cui, il suo consorte Manfredi, un tempo, aveva tolto la corona di suo padre, Corrado IV per portarla lui stesso. Se il castellano le fece trapelare la notizia della vittoriosa spedizione militare di Corradino e dei suo alleato don Arrigo di Castiglia, allora dovette il suo cuore essere assalito, contemporaneamente, dalla speranza e dalla paura, perché, coll’avvicinarsi del giovane Hohenstaufen, si sollevarono in suo favore molte città della Puglia e anche la fedele Andria innalzò il vessillo della casa sveva e cacciò la guarnigione del re Carlo, che fu costretta a fuggire a Castel del Monte.
Ora, se, invece di Corradino, fosse stato sconfitto Carlo d’Angiò sul campo
di battaglia, nei pressi di Tagliacozzo, allora Elena e i suoi bambini avrebbero avuto la libertà o avrebbero trovato la morte, in seguito ad una rapida esecuzione, prima che i salvatori potessero apparire davanti alle porte della prigione. Invece, la testa di Corradino cadde a Napoli e il vincitore,
satollo di sangue, lasciò vivere i figli di Manfredi, che egli non più temeva.
Ancora un paio d’anni soltanto languì Elena nella prigione di Nocera. Ella fu sostentata con taccagneria; ma sono esagerate le supposizioni di coloro che volevano che Carlo d’Angiò addirittura la facesse trattare come una mendicante. La somma di 40 once d’oro, che fu assegnata annualmente al soggiorno della regina e della sua servitù, potette, certamente, solo bastare per coprire lo stretto necessario; anzi alla vedova di Manfredi erano stati lasciati una servitù e l’uso di una parte dei suoi averi di una volta. Quanto al tempo in cui l’infelice fu liberata, con la morte delle sue pene, ci fa luce, alla fine, un decreto di Carlo I. Tale decreto, datato 11 Marzo 1271 da Sutri, nell’Etruria romana, è indirizzato al castellano di Nocera, al quale viene ordinato: «Noi ti comandiamo, subito dopo la ricezione della presente di lasciar libere dal castello di Nocera, le donne di servizio (damigelle) e tutta la famiglia della defunta Elena, sorella del despota con i loro effetti personali, senza che a loro possa capitare offesa o molestia da parte di qualsiasi persona. Devi trasmettere per iscritto il loro nome e cognome al magister Nicolaus Buczellus (sic) affinché fornisca loro un salvacondotto per il luogo in cui desiderano andare».
Tale decreto rende certo che Elena vivesse sola, separata dai suoi figli per la barbarica crudeltà di Carlo d’Angiò, nell’anno 1271, nella sua prigione; cosicché sotto il nome di «famiglia» del quale in esso fa menzione, è da
intendersi, naturalmente, solo la servitù, secondo l’antica accezione comune della lingua italiana. Poiché a costoro fu permessa la libera partenza dal castello, ciò accadde in seguito alla morte della regina prigioniera. La vedova di Manfredi morì all’età di 29 anni negli ultimi giorni di Febbraio o ai primi di Marzo del 1271 e sarà stata sepolta in qualche chiesa di Nocera.
Cercai in quella città, invano, la sua tomba. Nessuno seppe dire alcunché al riguardo, colà e anche il castello sulla collina sovrastante Nocera dove Elena fu prigioniera, è in rovina da molto tempo ed ora è uno dei più bei ruderi di castelli d’Italia. L’inventario del lascito della defunta, che il castel!ano di Nocera, Enrico di Porta, compilò dietro ordine del re, reca la data del 18 luglio 1271. Tale documento indica la consistenza di tutto quello che la regina aveva potuto portare con se nel carcere: gioielli, perle e pietre preziose, servizi da tavola in argento, oggetti di bronzo, un armadio d’avorio, il guardaroba, la maggior parte dei capi del quale con l’aggiunta «vetus et consuptum» vecchio e consumato; sono specificati tappeti, soprabiti, vestiti di broccato d’oro, avanzi logori del passato splendore. La morte della loro madre potette essere solo la svolta alla miseria più triste per gli infelici figli di Manfredi, dei quali, i più avanti negli anni ora diventati grandi abbastanza per comprendere perfettamente il loro destino».