Abilito nel 1878 sulle spinte della scuola “populista”, ora si comincia a riapprezzare la capacità formativa del Latino per un miglior apprendimento dell’italiano
L’insegnamento del Latino nella scuola media è stato abolito nel 1978, ma oggi sono sempre di più le scuole che stanno rivalutando l’introduzione di questa materia già dalla scuola secondaria di I grado, riconoscendone l’importanza a livello formativo per gli alunni e un insegnamento necessario per il raggiungimento della consapevolezza del proprio ruolo all’interno delle strutture sociali.
Infatti, nel caso migliore talvolta viene proposto in una classe III, nel caso peggiore come uno dei progetti di avviamento al Latino di poche ore; ma un anno di Latino non servirà assolutamente a nulla se non a far perdere tempo a coloro che lo studieranno, perché almeno due anni sono necessari per arrivare a un qualche risultato nello studio di questa lingua; inoltre, proprio la scuola media – o Secondaria di I Grado che dir si voglia – proprio per il suo carattere mediano e obbligatorio deve fornire le capacità di raggiungere i confini della vera cultura, così da consentire ai giovani di ampliare il proprio bagaglio culturale – che spesso solo qui possono ampliare – e di prepararsi a diventare cittadini consapevoli e coscienti.
Ma come si è giunti a ciò e perché, di contro, si dovrebbe rivalutare la re-introduzione del Latino nella Scuola?
Manuele Ambrosini in un suo lungo e brillante articolo ripercorre le tappe dell’abolizione del Latino dalle Scuole Medie, partendo dal 1958, quando, nell’ottica di una pseudo-democratizzazione, iniziò a delinearsi il progetto di una scuola media uguale per tutti e che prevedesse il raggiungimento dell’obbligo scolastico a quattordici anni; proprio in questi anni il Latino ha rappresentato un momento di cesura tra la concezione di una scuola elitaria e quella di una scuola di massa, con campagne massive dei giornali tra chi era favorevole o contro.
Gli organi di stampa, infatti, affrontavano queste difficili problematiche cercando di avvicinare la popolazione agli avvenimenti, per coinvolgerla e renderla consapevole: il Latino si rivelava la discussione più viva e la numerosa pubblicazione di articoli all’interno delle maggiori testate giornalistiche ne dimostrava l’alto significato politico e sociale; in alcuni casi ci si dimenticava che il tasso di analfabetismo italiano fosse tale da non favorire una elevata divulgazione di questo tema politico e sociale.
Carlo Casalegno approfondiva il tema in un articolo pubblicato su “La Stampa” il 20 settembre 1962: qui l’autore spiegava lucidamente quanto fosse necessario distaccarsi dalle motivazioni politiche per giungere alla migliore delle soluzioni possibili senza incorrere in un danno didattico nei confronti delle generazioni che avrebbero frequentato la nuova scuola media. Nelle classi in esperimento, il Latino era stato proposto come materia facoltativa, ma secondo Casalegno quest’operazione posticipava solamente il problema. Inoltre, egli considerava la predisposizione allo studio del Latino come una conditio sine qua non fosse possibile avvicinarsi allo studio di tale disciplina. Dal punto di vista politico la DC non voleva cedere alla possibilità di attenuare le proprie idee nei confronti delle forze laiche di sinistra, ma questo era stato solo il primo degli atteggiamenti che presero i vertici del partito democristiano. In seguito, infatti, si sarebbero maggiormente aperti a un confronto sia dal punto di vista politico che culturale.
In un articolo pubblicato nel 1962 da Panfilo Gentile, noto liberale, si descriveva il rapporto che si era creato tra il Latino e la politica evidenziando uno scontro con il pensiero dei socialisti, quando si sosteneva che sopprimendosi il Latino nella scuola dell’obbligo la discriminazione classista non era affatto soppressa, ma soltanto prorogata. La difesa della humanitas da parte degli ambienti liberali era da associare anche a una vicinanza al mondo cattolico, ma non era da sottovalutare la difesa della cultura classica come strumento per il consolidamento dell’appartenenza culturale. In Commissione Istruzione e Belle Arti non si era riusciti ancora a trovare una soluzione per l’approvazione di tutti gli articoli. Le posizioni erano notevolmente differenti anche se non sempre l’appartenenza politica risultava determinante per la posizione presa dai singoli senatori. Il primo disegno di legge era stato presentato dai comunisti Ambrogio Donini e Cesare Luporini mentre, tra le file governative, il ministro Medici si era occupato della stesura di un altro testo di legge. In questa fase era proprio il Latino il denominatore comune di tutti i dibattiti politici, la vexata quaestio, poiché, all’interno della nuova scuola media, rappresentava, per i vari redattori, la difesa della scuola elitaria e l’emblema della discriminazione di classe.
Già in una lettera inviata a Tristano Codignola (antifascista, giurista, esponente del liberalsocialismo e del Partito d’Azione, Costituente) affioravano i primi commenti sulla riforma, dettati dalla netta separazione proposta tra cultura generale unica e indispensabile “se vogliamo formare una classe dirigente veramente democratica, la quale, come dimostrano le esperienze antiche e recenti, non può fare a meno di una solida preparazione umanistica” e una cultura particolare che non è di competenza delle scuole medie “ma dalle facoltà universitarie”, in quanto i tecnocrati senza cultura umanistica sono incapaci di una visione panoramica della vita e “sono un autentico pericolo pubblico”.
Insomma, c’era un nodo decisivo da sciogliere, sia dal punto di vista politico e culturale, come testimoniava, ad esempio, la presa di posizione dell’Accademia dei Lincei che, attraverso la Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, sottolineava l’importanza di aumentare l’uguaglianza e la giustizia sociale tra gli studenti. Tuttavia, “non [era] umanamente possibile livellare la cultura e lo spirito, d’altra parte abolire, o soltanto, indebolire lo studio del Latino nella scuola media avrebbe significato rinunciare ad uno strumento insostituibile di formazione intellettuale negli anni decisivi della scuola e abbassare il tono degli studi liceali e universitari”, mostrando una grande lungimiranza verso le criticità emerse nei tempi moderni e non dando per scontato che i figli dei ceti meno abbienti non volessero imparare il Latino, poiché avevano una maggiore ambizione di ascesa sociale.
Un punto a favore era emerso da alcune relazioni presentate dalla VIII Commissione Istruzione e Belle Arti della Camera dei Deputati. Tra queste, la relazione di Scaglia si focalizzava su diverse questioni: la capacità formativa del Latino per un miglior apprendimento dell’italiano; l’opportunità di un Latino non discriminante e formativo per ogni alunno che proveniva da qualsiasi classe sociale; la necessità che questa lingua costituisse un mezzo per il miglioramento non solo didattico dell’allievo, ma anche per un accrescimento morale ed educativo, “con una particolare considerazione per coloro che tale studio non continueranno, ai quali non si vuole imporre uno sforzo inutile, ma, con un preciso obbiettivo pedagogico-sociale, si vuol fornire un elemento di esperienza che, senza pesare come materia autonoma, consenta loro di decidere con una qualche cognizione di causa se tale studio intendano o no continuare”. La DC aveva deciso di avvicinarsi anche a coloro i quali non avevano capacità tali da poter intraprendere una carriera scolastica che comprendesse lo studio del Latino. Tuttavia, la nuova struttura scolastica permetteva agli alunni di avvicinarsi alla disciplina con un occhio meno disinteressato. In questo senso l’offensiva delle forze di sinistra si era dimostrata vincente anche se, solo grazie ai socialisti, si era riusciti a operare un incontro tra le posizioni più radicali e quelle più disposte a dialogare.