Origine dello sbarco a Venezia il naufragio in Norvegia della nave di un nobile veneziano, Pietro Querini. Dopo mille peripezie per tornare in Patria la presentazione della pietanza al Doge
di Orazio Mezzetti
Baccalà e stoccafisso, prodotto derivato dal buon merluzzo del Baltico, salato o essiccato. Molte teorie circondano la storia e la fama di questo particolare pesce, entrato, con giusto merito, nel comune uso gastronomico del nostro paese e, spesso favorito, a discapito di altre importanti ricette.
Ma chi ha veramente contribuito a far conoscere questa prelibatezza? Qualcuno dice che sia stata opera dell’arcivescovo metropolita della Chiesa Cattolica, di origine svedese, di nome Olav Manson, latinizzato in Olaus Magnus, e poi in italiano, Olao Magno, nato a Linköping nel 1490.
A questo importante religioso, mentre era ospite a Venezia del Patriarca della Serenissima, Gerolamo Querini, fu assegnato dal Concilio di Trento l’incarico di redigere un libretto su cui elencare i cibi ammessi durante i periodi di digiuno. La Chiesa cattolica fu spinta a rispettare il precetto del cosiddetto “mangiar magro”, ovvero quello d’accettare il senso della povertà anche a tavola. Ovviamente nel testo scritto in questa elencazione per il libretto, vennero suggeriti dal prelato alcuni alimenti tipici della Svezia, e opportunamente, un particolare tipo di merluzzo che veniva conservato in due modi, salato ed essiccato, alimento prodotto da una famosa e antica famiglia svedese che commerciava nel settore ittico, i signori Manson, suoi famigliari, incrementando così la conoscenza delle qualità del pesce che i guadagni di famiglia.
Ma la vera storia delle origini della scoperta italiana del “merluzzo svedese” è molto più antica ed articolata, che sembra quasi romanzata. Prima del Magno, e prima ancora della scoperta delle Americhe da parte di Cristoforo Colombo nel 1492, un nobile veneziano, Pietro Querini (nel ritratto di apertura), partì da Venezia nel 1431, su una cocca di sua proprietà, una grossa nave commerciale, (la Querina), diretto verso l’isola di Creta, dove Pietro era signore dei feudi di Castel di Temisi e di Dafnes, famosi per la produzione del vino Malvasia, che egli commerciava con le Fiandre. Ripartì il 25 aprile, con a bordo 68 uomini di diverse nazionalità, dopo aver caricato la nave di ottocento barili di Malvasia, spezie, cera, allume di roccia e altre mercanzie. Si diresse verso l’Africa settentrionale ma fu costretto ad uscire dalla rotta consueta, per evitare possibili incontri con i genovesi, che avevano riaperto le ostilità con i veneziani, ma l’indomabile vento del Nord-Est lo spinse verso le Canarie.
Ripartito dalle isole Canarie, il fato ingrato, con ogni sorta di disgrazie, si abbatté sulla nave e sull’equipaggio, che ridotto ad appena 16 superstiti, naufragherà dopo alcuni mesi molto lontano dalla meta prevista, riuscendo a fatica a sbarcare, ben oltre il circolo polare, nell’isolotto disabitato di Sandøya (Isole Lofoten) in Norvegia. L’equipaggio fu soccorso dalla popolazione locale ed accolto dai pescatori norvegesi, che li ospitarono nelle loro case. Dopo quattro mesi, intrapresero il viaggio di ritorno verso la patria natia, portandosi seco il particolare omaggio di alcuni sacchi di stoccafisso. Arrivati a Venezia, il nobile Pietro Querini, presentò quella stranissima forma di pesce essiccato al loro Doge. Dopo intuitive perplessità iniziali, dovute in particolare, al noto “profumo” ed alla particolare durezza, divenne in breve tempo uno dei piatti preferiti del Doge, ma anche per la più modesta mensa del popolo. La tecnica, innovativa per l’epoca, era la conservazione per essiccazione naturale senza l’uso del sale che, portata a Venezia, portò alla creazione delle famose ricette tradizionali del “bacalà” veneziano. Questo particolare pesce si divulgò presto in tutta Italia.