Come capire se i genitori erano d’accordo? Bastava gustare la nera bevanda che veniva offerta: se era amara, era un secco no. E per uscire insieme ci voleva “la candela”
Fino agli inizi dell’80 era un caffè amaro o zuccherato a decidere se un fidanzato era stato accettato o meno dalla famiglia di lei come corteggiatore.
I
l corteggiamento, spesso, avveniva a distanza: il pretendente, per incontrare la sua amata, cercava di incrociarla per strada o dinanzi la chiesa, oppure passava spesso davanti casa sua, o qualche amica in comune faceva da tramite. Ancora: spesso i giovani cantavano una serenata sotto le finestre dell’amata, con tanto di accompagnamento musicale. Se l’omaggio era gradito, la bella restava dietro le persiane e magari si mostrava fuori, altrimenti si spegnevano le luci e si chiudevano le imposte.
Un po’ tutto nelle procedure cambiò nel 1929, con i patti Lateranensi, come spiega dal suo blog Rita Cuofano, ufficiale di stato civile a Nocera Superiore e storica del suo quartiere, Pucciano: «Accanto al matrimonio civile che era entrato in vigore il 1° gennaio del 1866 – scrive – fu introdotto un nuovo tipo di matrimonio, il cosiddetto matrimonio concordatario, con il quale venivano collegati gli effetti civili a quello canonico. Sicuramente fu una svolta. Prima di allora il matrimonio religioso era irrilevante dal punto di vista giuridico ma veniva comunque scelto da chi quel “si” voleva dirlo anche davanti a Dio. Ma cosa succedeva prima del 1866? I nubendi, alla presenza di quattro testimoni, chiedevano all’Ufficiale dello stato civile di ricevere la loro solenne promessa di celebrare il matrimonio avanti alla chiesa, secondo le forme prescritte dal Sacro Concilio di Trento. Una copia di questa promessa veniva inviata al parroco che doveva celebrare e veniva restituita con una certificazione a piè di essa riguardante la data in cui era avvenuto».
Una curiosità: il primo matrimonio concordatario a Nocera Superiore fu quello di Rafiluccio e Sisina, al secolo Giuseppe Cuofano e Teresa Corradi, nonni di Rita.
Tornando al ‘900 inoltrato, se la famiglia accettava il corteggiatore, e quindi il caffè era zuccherato, si stabilivano i patti economici e la probabile data del matrimonio. A carico dello sposo erano, solitamente, la casa e il mobilio; alla sposa toccava, oltre la dote, quando c’era, il corredo, da lei stessa preparato a partire dall’adolescenza, e il pentolame. Dopo che il fidanzamento era stato accettato dalla famiglia, i due promessi potevano vedersi o a casa della ragazza o uscire per una passeggiata, ma sempre rigorosamente in compagnia della madre, o di un parente che, come si diceva, “teneva ‘a cannela”.
Il matrimonio era solito avvenire di domenica pomeriggio. Non si utilizzavano bomboniere ma solo un fazzoletto con dei confetti, che gli sposi portavano qualche giorno prima a parenti e amici, con un cartoccio di dolci. L’unione matrimoniale si officiava nella parrocchia o nella chiesa più vicini alla casa della sposa. Solo per alcune famiglie autorevoli la cerimonia veniva celebrata nella cappella di casa. Non si usavano addobbi sfarzosi in chiesa, né abiti succinti, per gli invitati bastavano gli abiti della domenica.
Dopo la cerimonia e i festeggiamenti gli sposi potevano ritirarsi in casa e consumare il matrimonio. Sotto il materasso del letto nunziale la suocera aveva posto una falce o coltello o un paio di forbici, per allontanare il malocchio e per assicurare da subito il concepimento di un maschio. Sotto il cuscino, inoltre, aveva anche posto un pannolino, che doveva servire per raccogliere la prova della verginità della sposa. Questa, poi, restava chiusa in casa per una settimana (gli “’otto juorne r’a’ zita“) poi faceva la prima uscita, recandosi in chiesa, dai suoi genitori e infine dai suoi suoceri.