Soffocati da procedure amministrative ci si preoccupa sempre meno della qualità dell’apprendimento per risolvere la miriade di adempimenti che poco hanno a che fare con l’attività didattica
di Francesco Li Pira
La burocrazia – si è detto più volte – è in verità l’antitesi della cultura e della relazione umana, che sono i due cardini sui quali ruotano, o dovrebbero ruotare, la docenza e la comunità educante.
Ognuno di noi può verificare questa verità riflettendo prima di tutto su quali fossero le motivazioni per le quali scelse ciò che poi è diventato: quasi ogni docente degno di questo nome ha scelto quello che per chi scrive è il mestiere più bello del mondo, per il desiderio di concorrere alla crescita culturale e umana dei propri simili, che nel momento del reciproco incontro abbisognano di competenti e credibili punti di riferimento.
La burocrazia scolastica, monstrum quale è diventata oggi, genera una realtà fittizia: è una realtà in cui i diversi termini devono meccanicamente corrispondersi l’uno con l’altro, nel mentre, al di là del freddo foglio, palpitano sogni, speranze e vite.
Insomma, la scuola del Terzo millennio è diventata una macchina che incoraggia i burocrati e scoraggia gli intellettuali. Come enunciato da Claudio Giunta, in un articolo del 18 giugno 2019, dove si analizzano la burocratizzazione scolastica e l’impiegatizzazione del docente e il relativo scoramento intellettuale, “Chi vuole leggere e insegnare decentemente Petrarca o Kant o Darwin o la trigonometria si trova avviluppato in una rete fatta di procedure da espletare, documenti da completare, riunioni a cui partecipare, verifiche a cui sottostare, senza contare tutti gli altri infiniti ostacoli della gimkana (alternanza scuola/lavoro, test Invalsi, gita scolastica, genitori efferati su WhatsApp). Ma gli insegnanti sono – anzi, devono essere! – degli intellettuali: Petrarca, Kant, Darwin e la trigonometria non sono il contorno del loro piatto, sono l’arrosto”.
Accade talora, è vero, che la vis vitalis incomprimibile si ribelli all’inerzia e alla stasi. Ad esempio, noi insegnanti sappiamo tutti – e diciamolo! – a cosa servano le infestanti “griglie di valutazione” che accompagnano la correzione delle prove più importanti: a niente. Lo studente – l’essere umano in crescita e formazione – ne resta fuori. Non è il modulo, dunque, che si adatta alla vita, ma la vita scolastica che oggi si adatta al modulo, una alienazione toccata a noi docenti della funestissima scuola-azienda che tutti i governi degli ultimi trenta anni – e di qualunque colore politico – hanno contribuito a edificare.
Burocrazia che, ovviamente, ha investito anche i presidi, ora dirigenti scolastici, cioè manager della Pubblica Amministrazione, senza darne però adeguato stipendio o coperture assicurative, ma solo aumentando le loro responsabilità.
Ormai è chiaro: la burocrazia pervade massicciamente la vita di una scuola che rischia di rimanerne soffocata e, soprattutto, di dedicare tempo ed energie non tanto al perseguimento degli obiettivi istituzionali ma a questi adempimenti burocratici. La scuola, anche a seguito della legge 107, si vede costretta da adempimenti e procedure amministrative a preoccuparsi sempre meno della qualità dell’apprendimento e a risolvere la miriade di adempimenti che poco hanno a che fare con l’attività propria della scuola.
Si tratta di modernizzare le strutture burocratiche e non quelle partecipative del fare scuola, a questo dovrebbe dedicarsi la politica ed il governo.
La scuola è un organismo delicato, che svolge un ruolo fondamentale nella vita di un Paese e non può essere distolta dai suoi compiti istituzionali con richieste inutili o ridondanti: deve essere riconosciuta come un bene comune per l’intera società, una scuola comunità aperta alla partecipazione e fondata su pluralismo, autonomia, collegialità, su cui investire le necessarie risorse.