Monta il conflitto generazionale nella ex Scuola Media sul valore della materia, in un mondo che ormai sembra convinto che «tanto se voglio sapere qualcosa c’è internet!»
di Francesco Li Pira
“Ma oggi c’è storia? Che barba, professore! Ma, poi, a che serve? Se voglio sapere qualcosa c’è internet!”.
Questa, nel caso migliore e più edulcorato, è la risposta pragmatica che, penso, ogni docente di storia – in quella che un tempo era la Scuola Media (e si perdoni il linguaggio ‘antico’, ma sono storico) – si sente dire dalla platea degli alunni.
È pur vero che i ragazzi non hanno la preparazione di base per poter affrontare un discorso impegnativo partendo dalla grande incompiuta di Bloch, anche se – adeguatamente preparati – potrebbero interagire positivamente con questo testo bellissimo, ma … adeguatamente preparati, dicevamo. E allora?
Personalmente trovo molto utile prendere alla lontana la questione, partendo eventualmente dalla testimonianza dello studente sumero bacchettato per ogni cosa dai vari maestri. Ciò, infatti, oltre a far capire ai discenti la differenza con l’oggi, permetterebbe di partire da una fonte, da un quid, che, anche se per loro ignoto, unito al quomodo, a mano a mano porterebbe verso una luce progressivamente più chiarificatrice.
Questa è, per l’appunto, la luce della conoscenza storica, di quell’ispezione visiva, insita nel termine greco historìa, che connota la storia come scienza dotata di etica e di una moralità fondamentale per la crescita civile e morale delle nuove generazioni, secondo il duplice significato formativo e conoscitivo proprio della scuola.
Certo, lasciando da parte la questione docimologica, che ora non ci interessa, il ruolo di mediatore del docente rimane fondamentale per costruire un viaggio coinvolgente capace di creare un raccordo culturale e interdisciplinare.
Questo giocoforza deve essere caratterizzato da un approccio euristico e dallo sforzo ermeneutico delle fonti, che – fermo restando lo storico principio primum vivere, deinde philosophari – potrebbe partire anche dalla ricostruzione di una storia locale sommersa, per arrivare, in una terza media, alla raccolta di fonti orali e alla loro registrazione, magari in sintonia con un modello pedagogico-didattico figlio del costruttivismo della conoscenza. Infatti, l’alunno coglie la realtà storica sulla base di un duplice binario di ricerca e di interpretazione:
1) la storia è movimento e quindi ha insito un percorso di permanenza e mutazione;
2) il passato non può essere estraneo, ma in un qualche modo entra a far parte del nostro essere e del nostro presente.
Qual è, quindi, il messaggio centrale da far gradualmente comprendere ai discenti, ma anche ai colleghi che – presi dalla stanchezza o dal finire per forza un ipotetico “programma” – spesso sacrificano o compattano le ore di questa disciplina?
Il messaggio più importante sta nella consapevolezza che l’atto del comprendere è già di per sé operare una mediazione tra il passato e il presente sviluppando nel proprio essere una serie continua delle prospettive attraverso cui il passato si presenta e si rivolge a noi. Non tanto per la sua interdisciplinarità, bensì per l’incessante confronto tra punti di vista metodologici diversi (storici, archeologici, artistici, scientifici, geografici, letterari), nell’ottica di costruzione e formazione di una identità civile comune europea o con prospettive ancora più vaste.
Particolare importanza rivestono i temi della memoria, della identità e delle radici, i quali dovrebbero essere affrontati e discussi, in maniera collegiale a livello di comunità educativa intera; proprio questi temi, infatti, sono i migliori ‘laboratori’ di storia versus la classica metodologia laboratoriale, che spesse volte si traduce in un mero trasferimento fisico di alunni verso i cosiddetti laboratori che altro non sono se non altre aule, magari dotate di una LIM o del corredo di qualche cartina in più.
Questo momento collegiale – che può essere inteso, e perché no, anche come telematico (visto il nostro odierno smart working) o di DAD (o DDI nel momento in cui si scrive) – presenterebbe la storia non solo come mera disciplina di studio, ma diventerebbe quasi un luogo della rappresentanza delle diverse identità multiculturali di un Paese.
Si potrebbe obiettare che ciò potrebbe sminuire il carattere formativo o l’efficacia nell’agire educativo.
Non è così! Non lo è perché, per la sua specificità, la storia ha le fondamenta proprio nelle diversità dei gruppi umani e nella diversa natura dei soggetti che la costituiscono. Nessuna materia, quindi, permette più della disciplina storica una didattica pluralistica che sappia – e anzi debba – praticare varie strade di insegnamento, confrontando le diverse società e la portata di fatti di grande ampiezza temporale e geografica.