hikikomori

Quando la reclusione domestica diventa volontaria: le potenziali cause, i pericoli, come riconoscere il problema e a chi rivolgersi se uno dei nostri figli o un nostro conoscente inizia a mostrarne i sintomi
di Valentina Milite
hikikomoriSi chiama hikikomori, è un fenomeno giovanile in crescita e non molto conosciuto. Si tratta di un problema psicologico che porta le persone a rinchiudersi tra le pareti di casa rifiutando il contatto personale con la società.

Se ne inizia a parlare di più da circa un anno ormai, in concomitanza con le limitazioni della nostra libertà personale dovute alla pandemia in corso, che giungono fino a casi estremi di lockdown duro e reclusione domestica forzata. Ma quando invece sono le persone a scegliere autonomamente di volersi isolare dalla socialità, richiudendosi tra le mura domestiche?
Proviamo a fare chiarezza con la dottoressa Patrizia Palomba, psicologa e psicoterapeuta, coordinatrice dell’area psicologica Campania per l’associazione Hikikomori Italia (www.hikikomoriitalia.it).
– dottoressa, cosa significa hikikomori e perché l’origine giapponese del termine?
«Il termine “Hikikomori” significa “restare in disparte” e fu coniato da un giovane psichiatra giapponese che per la prima volta lo utilizzò con una connotazione scientifica nel libro “Ritiro sociale: adolescenza senza fine” (1998). Viene utilizzato per indicare coloro che si isolano dal mondo sociale per mesi o anni, autorecludendosi nella propria abitazione e tagliando i ponti con l’esterno. Il fenomeno ha avuto una rapida crescita in Giappone sul finire degli anni ’80, quando centinaia di migliaia di ragazzi letteralmente sparivano nel nulla, sepolti nelle loro camere chiuse».
-Riguarda solo gli adolescenti? Di che fascia di età stiamo parlando?
«La pulsione all’isolamento può insorgere dai 14 ai 30 anni, ma non si escludono ritirati ultraquarantenni autoreclusi da oltre 10 anni».hikikomori
– Il fenomeno è stato per prima identificato e descritto in Giappone, ma da anni si è diffuso un po’ in tutto il mondo. Ad oggi ci sono dati ufficiali o comunque affidabili dell’entità del fenomeno? Avete una stima di quanti ragazzi in Italia si trovino attualmente (indipendentemente dalle contingenti restrizioni covid) in isolamento domestico volontario?
«In Giappone sono stati fatti negli anni diversi tentativi di avere stime ufficiali del fenomeno, ma il Governo si è sempre mostrato molto resistente a far emergere in modo chiaro un fenomeno sociale di tale gravità e portata. Secondo Tamaki Saito (nella foto), lo psichiatra che ha individuato il fenomeno si dovrebbe parlare di due milioni di casi, ma l’ultima stima ufficiale del 2016 è di 541 mila casi, di cui il 35% isolato da almeno 7 anni, su soggetti tra i 15 e i 39 anni.
In Italia le stime non ufficiali, che fanno riferimento alla media del numero di richieste che arrivano all’associazione, sono di circa 100 mila casi».
Tamaki Saito– Gli hikikomori, generalmente si isolano perché non ricevono più stimoli ed interesse dal mondo esterno o perché ne hanno paura? È solo un problema di agorafobia o di sentirsi inadeguati?
«Le cause dell’isolamento sono diverse, tra queste la pressione di realizzazione sociale, la paura di essere giudicati e una forma di depressione associata a un vuoto di senso, per questo definita depressione esistenziale. L’agorafobia, l’ansia sociale, la fobia scolare, il rifiuto e l’abbandono scolastico, sono le conseguenze e non la causa della pulsione all’isolamento».
– Quanto ha influito la digitalizzazione sul fenomeno? Oggi un po’ tutti i ragazzi sono spesso distratti dai dispositivi elettronici e i social. Come può un genitore capire che il proprio figlio potrebbe star divenendo un hikikomori? E come può aiutarlo? A chi rivolgersi?
«È spesso motivo di confusione nella comprensione del fenomeno l’influenza della digitalizzazione della comunicazione e delle relazioni, tanto da essere stato scambiato per “dipendenza tecnologica”. L’utilizzo massiccio del web da parte dei ragazzi in ritiro volontario è, anche in questo caso, una conseguenza della pulsione all’isolamento e rappresenta per molti l’unico modo per mantenere una connessione con il mondo esterno. Il modo in cui viene utilizzato il web può aiutare a comprendere il livello di ritiro del soggetto.recluso1 Lo scopo dell’associazione è di sensibilizzare la comunità tutta al fenomeno, diffondendo i segnali, che definiamo “campanelli di allarme”, per comprendere se si è di fronte a un primo stadio del fenomeno: il rifiuto saltuario di andare a scuola o al lavoro utilizzando scuse di vario genere, il progressivo abbandono di tutte le attività extrascolastiche o extralavorative che richiedono un contatto diretto con il mondo esterno, una graduale inversione del ritmo sonno – veglia, la netta preferenza per attività solitarie, legate alle nuove tecnologie o il consumo di serie TV. Vi è poi un secondo e terzo stadio di isolamento, ma già dal primo è importante rivolgersi a un professionista o contattare l’associazione, per intervenire con gli strumenti giusti.
Riguardo ai comportamenti dei genitori utili a non peggiorare la situazione, sicuramente il più importante è quello di non fare pressione con ricatti, punizioni, limitazioni dell’uso delle tecnologie, ma è necessario una presa di coscienza più ampia della complessità della situazione e mettere in campo interventi più articolati. È importante non chiudersi in sentimenti di vergogna, di sconfitta, di rabbia, ma connettersi con altri genitori che hanno fatto o stanno facendo la stessa difficile esperienza. Per questo l’associazione favorisce e promuove uno scambio di esperienze tra i genitori, sia sul blog, la pagina facebook, ma anche in gruppi di sostegno alla genitorialità, che in Campania sono presenti già da qualche anno, nelle provincie di Napoli e Salerno. Sul nostro sito inoltre è possibile trovare i nominativi e i riferimenti di professionisti formati sul fenomeno e convenzionati con l’associazione».

Lascia un commento