Siamo agli anni ’70, quando “nacque” la Beton Cave e scelte infelici portarono all’esproprio di Fosso Imperatore senza chiedere contropartite. Poi il terremoto e l’avvento della camorra
di Angelo Verrillo
Anche nei primi anni settanta del novecento, si fecero scelte che ancora oggi appaiono incomprensibili, oltre che dannose. La prima fu quella con la quale il Comune decise di concedere a titolo gratuito una parte di montagna, con l’autorizzazione allo sfruttamento della stessa come cava, all’ingresso sud della città.
Quasi negli stessi mesi, la città subiva un nuovo ricatto dell’ENI che minacciava la chiusura dello stabilimento MCM di Via Napoli. Dicevano, sostanzialmente, che avevano necessità di ingrandirsi e che, non potendo realizzare i loro progetti per mancanza di spazio, sarebbero stati costretti a trasferire la fabbrica altrove.
Per evitare una tale iattura, gli amministratori dell’epoca decisero di espropriare le terre di Fosso Imperatore, di regalarle all’ENI e di esonerare i beneficiari anche dal pagamento degli oneri di urbanizzazione. Alcuni di noi proposero di condizionare quel regalo all’impegno dell’ENI di cedere al Comune, a trasferimento avvenuto, la proprietà dei suoli di Via Napoli. La nostra idea non fu neppure presa in considerazione ed alcuni di noi, seppure a malincuore, fummo costretti a votare contro quel provvedimento.
Nel 1972, venne finalmente approvato il Piano Regolatore e si riuscì anche ad evitare che si trasformasse in una nuova occasione di cementificazione selvaggia. Infine, nell’estate del 1974 fu combattuta un’altra storica battaglia operaia: quella per evitare la chiusura della Gambardella. Anche quella lotta finì con un accordo che sembrò una vittoria, poi quell’accordo fu sconfessato ed anche quella fabbrica entrò in una lunga e dolorosa agonia.
23 novembre 1980 – La chiusura di un’epoca
Quella domenica sera fu il terremoto a riportare nella nostra comunità i lutti e le macerie. Più del 50% dei fabbricati divenne inagibile, 33 nostri concittadini persero la vita (gran parte di loro nel palazzo che crollò a via Isaia Gabola) e quasi 200 rimasero feriti, in modo più o meno grave. La maggioranza della popolazione cominciò a vivere prima nelle auto e poi all’interno di accampamenti che a decine sorsero in vari punti della città.
Dopo pochi giorni, centinaia di tende fecero la loro comparsa in diversi punti della città poi, quando il freddo divenne più intenso, furono sostituite dai containers. Questi ultimi furono posizionati in diverse aree pubbliche ed anche in giardini privati, dopo che il Comune ne aveva disposto l’occupazione: il più grande sorse nell’ex agrumeto delle famiglie Russo-De Francesco in Via Canale, per il quale, dopo quarant’anni, è ancora in corso un contenzioso.
Fin dai primi giorni, si creò una rete di volontariato che consentì di far giungere ai senza tetto ogni genere di aiuto: latte ed alimenti, oltre a coperte ed indumenti. Ben presto però, anche l’opera dei volontari divenne più ardua e non furono pochi gli episodi di violenza finalizzata all’accaparramento della merce trasportata. In molti pensarono che si trattasse di episodi marginali ed isolati, anche se ben presto furono costretti a ricredersi.
Dopo poche settimane dalla tragedia, divenne a tutti chiaro che, con lo stanziamento di risorse enormi per la ricostruzione, ben altri interessi e ben altre minacce gravavano su tutte le zone colpite dal sisma. Se ne ebbe definitiva conferma quando, la mattina dell’11 dicembre 1980, venne assassinato il sindaco di Pagani, l’avvocato Marcello Torre. Al suo funerale ebbi la sensazione netta che, da quel momento, tutto sarebbe stato più difficile: nel confronto civile e nelle scelte politiche era intervenuto un “convitato di pietra” che alterava e mutava le regole del gioco.
Dopo di allora furono molti quelli che pensarono che non valesse più la pena adoperarsi per la collettività, e si allontanarono dalla politica e dall’impegno sociale e culturale. Ritengo ancora paradossale che, a fare questa scelta, fossero indotte le persone migliori: erano diventate quelle più esposte proprio per la loro integrità morale e il loro disinteresse personale.
In questo contesto, negli anni successivi si arrivò alla scelta dei prefabbricati pesanti e alla loro ubicazione a Monte Vescovado. Fu detto che era una soluzione provvisoria e invece sono ancora lì: un altro dei problemi ancora da risolvere, nonostante i molteplici ed encomiabili tentativi delle ultime amministrazioni comunali. Non dimentico quanto detto sopra e non mi permetto di esprimere giudizi su quella scelta. Aggiungo solo che ho sempre pensato che, in un quadro diverso, con una maggiore trasparenza, partecipazione e condivisione popolare, si sarebbero potute trovare soluzioni migliori.
Con queste riflessioni, mentre si vede la luce alla fine del tunnel che stiamo attraversando, finisce l’impegno che mi ero assunto all’inizio della quarantena. Ho molto apprezzato l’interesse suscitato da questi piccoli frammenti di storia locale e sento il dovere di ringraziare quanti hanno voluto confermarmi che ne valeva la pena. Mi auguro che quanto prima si possa continuare a parlarne da vicino.