Il no di Vincenzo De Luca alla sottoscrizione dell’accordo Governo-Regioni non è un’ennesima folckloristica uscita dello “sceriffo” della Campania, incoronato oggi da “Le Parisien” nuovo re d’Italia.
Sia ben chiaro, e ci tengo a metterlo in evidenza: De Luca mi sta tutt’altro che simpatico. Avendone giornalisticamente seguito le vicende politiche dal suo primo sindacato avrei tanti appunti da fare. Ma non è questa la sede né è lui il soggetto del mio “sfogo”. Chi oggi finisce nel mirino è “Giuseppi” Conte e il suo Governo, che sta dando una prova inqualificabile di approssimazione e impreparazione nell’affrontare un problema gravissimo come quello dell’epidemia di Coronavirus. Il decreto di marzo che ha dato risposte a pochi, quello di aprile che è diventato decreto maggio e poi, per vergogna, ha cambiato nome in “decreto rilancio”; fondi promessi e mai arrivati per imprese e lavoratori, la telenovela delle famigerate autodichiarazioni. E, infine, la confusione più totale sul quando e come riaprire. Con il risultato che ognuno ha deciso di tirare Conte per la giacca sperando di strappare qualcosa: gli ultimi quelli che si sono lamentati che i 500 euro per le vacanze andavano dati anche alle famiglie ricche, perché loro, si, fanno le vacanze in albergo. Un vero e proprio abominio!
Diciamoci la verità: del Governo Conte fanno parte un gruppo di sfigati con meno voti di un’amministratore di condominio; da un gruppo che ormai non è più nemmeno l’ombra di quello che una volta era il “glorioso” Pci né può allacciare i sandali a quella, con tutti i suoi difetti, che fu la Democrazia Cristiana; e poi ci sono gli indefinibili di “Italia Viva”, ma anche quei neopopulisti ex “unovaleuno” che debbono il loro ultimo successo elettorale, quello che li ha portati al governo con la Lega (ma non avevano detto “Mai con la Lega, mai con i Pidioti del Pd”?), ad una campagna elettorale fatta a mo’ di quelle che faceva Achille Lauro con il dono di una sola scarpa e l’altra dopo l’elezione. Una campagna elettorale fondata sulla concessione del “reddito di cittadinanza”, simbolo dell’assistenzialismo più becero, finito peraltro in tante occasioni a chi ha saputo imbrogliare meglio, a danno delle tasche di chi le tasse le paga e di chi aveva dieci volte più bisogno degli imbroglioni.
Peccato che Conte non si chiami come il perito che nel 1904 difese a Napoli Gabriele D’Annunzio, il quale aveva querelato per plagio Eduardo Scarpetta per la sua opera “La figlia di Iorio“. Perché a lui e alla sua premiata compagine calzerebbe bene, dopo tanta improvvisazione a danno degli italiani, la frase che Scarpetta pronunciò in Tribunale: «Che cacchio m’accòcchia stu cacchio de Còcchia!».
Gigi Di Mauro