Quell’estate, pochi giorni prima della scadenza della Legge Ponte, furono rilasciate quasi tutte le centinaia di richieste edilizie giacenti presso l’Ufficio tecnico. In poche parole, prima di costruire i cancelli, si lasciarono scappare tutti gli animali dalle stalle
di Angelo Verrillo
I primi anni sessanta sono passati alla storia come “gli anni del boom economico” e, nello stesso tempo, come quelli durante i quali avvenne la più sfrenata ed incontrollata “speculazione edilizia” fino ad allora conosciuta.
Le due definizioni hanno un evidente collegamento logico. Da un lato, le famiglie cominciarono a disporre di risorse superiori a quelle che, a stento, avevano consentito fino ad allora la sopravvivenza, dall’altro il primo bisogno che in questo caso si tende a soddisfare è quello di possedere una casa propria.
Tutti gli imprenditori sanno che le loro attività si sviluppano sulla base delle “opportunità”, tenendo conto però dei “vincoli” (limitazioni) entro i quali le loro imprese sono tenute ad operare. In quegli anni invece, accadde che i costruttori godessero del privilegio di poter sfruttare le opportunità del mercato nella totale assenza di vincoli e limitazioni.
Infatti, fino al 1967, erano pochissimi i comuni che si erano dotati di un Piano Regolatore, o di qualche altro strumento urbanistico e, in quegli anni, la lobby dei costruttori era talmente forte e potente da condizionare anche l’attività dei Governi e del Parlamento. Lo conferma il fatto che, fino alla data sopra ricordata, non fu mai possibile approvare una legge urbanistica nazionale allo scopo di governare e regolamentare la materia.
La vittima più illustre di quella lobby fu l’onorevole Fiorentino Sullo. Nel 1963, come Ministro dei Lavori Pubblici, Sullo osò presentare una proposta di legge urbanistica e questo bastò per provocare una reazione talmente violenta da costringere il suo Partito ad una durissima sconfessione, costringendolo al ritiro di quella proposta. Dopo quei fatti il parlamentare di Avellino fu estromesso dal Governo.
1968 – Gli effetti della Legge Ponte a Nocera
Per alcuni anni non si parlò più della assoluta necessità di regolamentare il settore e l’edilizia selvaggia continuò a farla da padrone. L’argomento tornò d’attualità quando, il 16 luglio del 1966, scoppiò lo scandalo di Agrigento: nella città siciliana era successo che le numerose costruzioni edificate sulla collina avevano provocato una frana che costrinse le autorità locali a sfollare 5.000 famiglie dalle loro case. L’allora Ministro Giacomo Mancini, nominò allora una commissione d’inchiesta e ne affidò la presidenza a Michele Martuscelli, direttore del settore urbanistica del Ministero del Lavori Pubblici. Sulla base dei risultati di quell’inchiesta, il 6 agosto 1967 venne approvata la Legge numero 765, che prese il nome di Legge Ponte perché fissava alcune norme provvisorie, in attesa del varo di una nuova riforma urbanistica nazionale.
La nuova Legge stabiliva alcune regole elementari e fondamentali: i Comuni dovevano dotarsi di un Piano Regolatore entro un anno dall’entrata in vigore della nuova normativa e, se non lo facevano, non potevano più rilasciare licenze a costruire. Inoltre, per la prima volta venivano introdotti due principi inderogabili: l’obbligo per i costruttori di farsi carico degli oneri di urbanizzazione delle aree edificabili e l’obbligo dei comuni di far rispettare gli standard urbanistici (parametri che fissavano il numero minimo di metri quadrati da garantire ad ogni cittadino per il verde, i parcheggi, le scuole e altre attività di interesse comune). Non deve trarre in inganno il fatto che, pur essendomi dovuto dilungare, non ho ancora fatto riferimento alla nostra Città: tutti i fatti che ho descritto sono parte integrante della storia di Nocera. Ho appreso da molti anni che, per comprendere ciò che avviene vicino a noi, bisogna alzare lo sguardo e guardare più lontano.
Durante quegli anni il profilo urbano di Nocera è stato brutalmente deturpato. Quasi nessun angolo di strada o di piazza è rimasto come l’avevano conosciuto le generazioni precedenti. Inoltre, la localizzazione degli insediamenti popolari fuori dal centro, al Rione Calenda come a Piedimonte o a Casolla, ha svuotato di migliaia di abitanti i quartieri storici. Io non credo che tutto questo sia avvenuto per caso: è avvenuto per le scelte operate da una classe dirigente che, forse per incompetenza o per altre motivazioni, ha di fatto anteposto all’interesse pubblico, quello di pochi privati. Anche nell’estate del 1968 fu operata una scelta. Il Comune non si era ancora dotato di un Piano Regolatore e, proprio in base ai meccanismi della Legge Ponte, dopo qualche giorno non avrebbe più potuto rilasciare nuove licenze edilizie: una tragedia che, secondo la cultura dell’epoca, si doveva evitare a tutti i costi. Furono questi i presupposti che portarono alla soluzione più semplice e furono rilasciate quasi tutte le centinaia di richieste edilizie giacenti presso l’Ufficio tecnico. In poche parole, prima di costruire i cancelli, si lasciarono scappare tutti gli animali dalle stalle.
In questo modo, si consentì di continuare lo scempio, riducendo tra l’altro anche la possibilità di efficacia del futuro Piano Regolatore, approvato quattro anni dopo. Eppure, quei pochi che già allora denunciavano quest’andazzo, continuarono ad essere derisi e additati come nemici del progresso e oppositori pretestuosi. In quegli anni ero ancora poco più di un ragazzo, ma rimasi sorpreso e sconcertato, oggi si direbbe indignato, quando a via Matteotti vidi all’opera le ruspe che stavano abbattendo le ville dei Gambardella: forse, pur avendo solo vent’anni, ero già ammalato di nostalgia.