“La storia insegna, ma servono allievi che imparino”, sostiene l’ex dirigente del Pci ed ex sindacalista, che da tempo si occupa della riscoperta della storia del movimento operaio locale
di Valentina Milite
Tra qualche giorno si celebra una ricorrenza importante per milioni di lavoratori in tutto il mondo e per quanti, soprattutto nell’epoca dei movimenti operai, hanno lottato per conquistare molti di quei diritti di cui oggi possiamo godere in materia di diritto del lavoro.
Angelo Verrillo, uomo politico, sindacalista e studioso, è stato per anni parte attiva sul nostro territorio, militando nelle fila del Pci prima e del Pds poi, partecipando al movimento studentesco del ’68 ed occupandosi in seguito della riscoperta e divulgazione della storia del movimento operaio locale.
L’abbiamo intervistato per chiedergli come ritiene sia cambiato il mondo del lavoro oggi rispetto all’epoca della sua militanza e come si sia evoluto e debba evolversi conseguentemente il ruolo del sindacato.
«Il ruolo del sindacato – esordisce Angelo Verrillo – oggi è cambiato sicuramente, perché ad esser cambiate sono le regole del gioco, è cambiato lo scenario. Un tempo c’era la cosiddetta lotta operaia per cui il sindacato doveva farsi portavoce di un’intera classe omogenea, con dei riferimenti chiari anche geografici, legati al territorio e ad aziende specifiche. Oggi non è così, c’è una moltitudine di differenti nuovi professioni e partite iva, che necessitano di tutele specifiche e diverse. Per questo il sindacato deve fare indubbiamente uno sforzo maggiore, in primis per individuare le varie categorie e poi esigenze particolari. Purtroppo, c’è spesso anche molto qualunquismo e sono gli stessi lavoratori ad essere sfiduciati e non vedere nei sindacati un soggetto di supporto cui rivolgersi. Non dobbiamo però dimenticare che i diritti non si conservano per sempre, se non si difendono e salvaguardano, vanno perduti e questo non deve accadere. Sono i giovani oggi a dover comprenderne l’importanza e lottare per conservarli. Ma purtroppo, come diceva Antonio Gramsci (qualche giorno fa tra l’altro è ricaduto l’anniversario della sua morte): “La storia insegna, ma nessuno impara”. Io mi auspico invece che possiamo iniziare a trarre degli insegnamenti dalla storia ed è per questo che cerco di riscoprirla e divulgarla il più possibile, perché si possa ripartire dal passato per costruire un futuro migliore. Conoscere per “trasformare”, come diceva Marx».
– Nel suo ultimo libro “La tela degli svizzeri” narra le vicende relative all’avventura del tessile a Nocera e l’ascesa e declino del distretto industriale salernitano. Perché, secondo lei, non si è stati in grado di reinvestire e recuperare quel patrimonio industriale?
«Con l’arrivo delle cotoniere a via Napoli nel 1876 iniziava la storia dell’industrializzazione di Nocera, che avrebbe portato poi alla successiva comparsa di istituzioni culturali, servizi sociali e poi di altre aziende, come i pastifici e l’industria conserviera. Questo processo sarebbe durato fino al 1959, quando ci fu una dura battaglia sindacale ed operaia per il licenziamento di circa 900 persone con la conseguente occupazione della cotoniera per quasi 20 giorni. Si cominciò in quel periodo a perdere l’entusiasmo e lo spirito imprenditoriale e partì invece il volano dell’edilizia, un processo di erosione urbana e cementificazione edilizia che durerà per circa un ventennio, conoscendo il suo acme negli anni ’80 e producendo quello che oggi abbiamo ereditato come un disordine urbanistico evidente, che insieme ad una scarsa memoria storica ha fatto sì che ci si dimenticasse dell’epoca in cui il comparto industriale di Nocera era all’apice della sua produttività e prosperità. Di nuovo, la storia insegna, ma servono anche allievi che imparino. Sarebbe necessario oggi fare ad esempio qualcosa per le aziende di Fosso Imperatore, per preservare e rilanciare quell’area industriale ed il suo potenziale».
– Nel libro fa anche una riflessione interessante in merito all’emancipazione femminile che l’occupazione delle donne nelle MCM comportò, permettendo loro di guadagnare uno stipendio e concorrere così al bilancio familiare. Possiamo quindi dire che la nascita dell’industria del tessile nel meridione fu causa anche di una piccola rivoluzione sociale che elevò il ruolo delle donne dell’epoca grazie all’emancipazione da lavoro?
«…di una grandissima rivoluzione sociale! Si dice che la donna sia “l’altra metà del cielo”, ma in realtà all’epoca era più come l’altra metà della luna, che non vediamo mai. Lavorare per le donne dell’epoca aveva significato contare, elevare il loro ruolo in famiglia e nella società. Del resto, oggi possiamo dire di poter valutare lo sviluppo di un Paese non solo da indicatori economici come ad esempio il PIL, ma anche dal ruolo che assumono le donne nella società e non è certo una novità che in contesti in cui si trovano più donne al potere si riscontri spesso maggiore efficienza e capacità».
-Lei si è impegnato, tra le altre cose, nel ricordare la figura ed il lavoro di due compianti esponenti della lotta sindacale in Campania: Salvatore Manzo ed Oliva Galante; dedicando loro rispettivamente le pubblicazioni: “La lezione di Salvatore” e “Pochi grammi di plastica”. In “Pochi grammi di plastica” in particolare, scrive: “Oliva […] era un antieroe, ambiva ad una vita serena, vissuta onestamente con la moglie ed i figli. Eppure, è riuscito a conciliare la serenità e l’affetto per la famiglia, con uno straordinario senso del dovere. […] scelse per sé, fin da ragazzo, il ruolo di «gendarme» dei poveri e degli umili. […] Per decenni, chiunque si è trovato a dover subire un’ingiustizia, ha potuto pensare di “rivolgersi alla CGIL”, di “andare a “parlare con Oliva Galante”. A qualcuno, potrà sembrare anche poco, a me sembra tantissimo, ed è per questo che penso che Galante abbia speso bene la sua vita”.
«Sì, veda, un tempo, come scrivevo anche nel mio libro “Il maestro analfabeta”, le camere del lavoro non erano solo un luogo aggregativo per il dopolavoro o la lotta operaia. Fungevano anche da scuola. Uomini come Salvatore Manzo ed Oliva Galante erano persone di origini modeste, che non avevano avuto modo di frequentare gli istituti scolastici a lungo. Erano entrati presto nel mondo del lavoro ed avevano formato la propria educazione ed istruzione con la lotta politica e sindacale. Nutrivano poi (un po’ come tutti coloro che non hanno avuto la possibilità di studiare), un grande amore per la carta scritta. Hanno lasciato grande abbondanza di documentazione del loro lavoro ed è questo che mi ha consentito di scrivere le loro biografie e tramandare la loro memoria».