È quanto accaduto ad un tenente di vascello pilota della Marina Militare Italiana, condannato dalla Cassazione per aver pubblicato un commento diffamatorio sul noto social network
di Danila SarnoAttenti ad apostrofare l’Italia con epiteti poco cordiali su Facebook o altri social network, perché potreste commettere un reato e finire in carcere! Lo sa bene un tenente di vascello pilota della Marina Militare Italiana, condannato dalla Corte di Cassazione, con sentenza numero 35988 del 2019, a un anno e quattro mesi di reclusione.
Nel 2018 la Corte militare di appello di Roma aveva giudicato l’uomo colpevole di delitto di vilipendio della Repubblica per aver pubblicato sul proprio profilo Facebook la foto di una nave da guerra con la scritta “Stato di merda”, riferendosi alla vicenda dei marò italiani e alla connessione di essa con i rapporti economici tra l’India e un’azienda italiana. Il reato commesso dall’imputato, previsto dall’articolo 290 del codice penale, risulta essere aggravato ai sensi degli articoli 81 e 47, primo comma n. 2, del codice penale militare di pace. Per i militari infatti la pena va da due a sette anni di carcerazione militare, per i cittadini comuni invece è prevista solo una multa da mille a 5 mila euro.
Avverso la sentenza, il tenente ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo la mancanza dell’elemento materiale del delitto in questione.
Più precisamente, i difensori dell’imputato hanno affermato che attraverso la frase incriminata non fosse stato vilipeso nessuno degli organi indicati dall’articolo 81 (Repubblica, istituzioni costituzionali e forze armate dello Stato), ma piuttosto la Nazione italiana in generale. Si tratterebbe non di vilipendio della Repubblica, ma della Nazione italiana, punito meno gravemente rispetto al primo.
Inoltre, a detta della difesa, non solo i giudici di merito non avrebbero proceduto ad alcun accertamento tecnico circa la paternità della frase, ma addirittura mancherebbe il requisito della pubblicità del commento incriminato, data l’assenza di certezza circa la visione di esso da parte di terzi.
Il militare ha poi lamentato la mancanza dell’elemento psicologico del reato contestato, che richiederebbe la precisa volontà di vilipendio della Repubblica.
Gli Ermellini hanno ritenuto infondati tutti i motivi di ricorso. Per la Corte, infatti, l’elemento psicologico del delitto di vilipendio consiste nel dolo generico, essendo irrilevanti i motivi particolari che hanno indotto l’autore ad agire. Per di più, il diritto di critica e libera manifestazione del pensiero va esercitato nel rispetto del prestigio e del decoro delle istituzioni repubblicane. Pertanto, se la critica trascende nel gratuito oltraggio, fine a sé stesso, costituisce vilipendio.
Con riguardo al requisito della pubblicità, più volte la Suprema Corte ha dichiarato che scrivere un messaggio diffamatorio su una bacheca di Facebook costituisce un’ipotesi di diffamazione aggravata, essendo possibile raggiungere un numero indeterminato di persone, a prescindere dall’ammontare effettivo di visualizzazioni del post. Circa il mancato accertamento della paternità della frase, gli Ermellini hanno ritenuto che i giudici dei gradi precedenti, nel giungere alla decisione finale, abbiano reso una motivazione esaustiva e logica, valutando un complesso di elementi tra cui la decisiva testimonianza di un maresciallo.
Inoltre la Cassazione ha ritenuto che il commento del militare, poiché riguardante un articolo sui rapporti commerciali tra l’Italia e l’India, non poteva essere riferito alla Nazione, intesa come comunità di individui, ma allo Stato, riconoscibile proprio in quegli organi indicati dall’articolo 81.
Nulla da fare dunque per il povero tenente che, oltre a dover scontare un anno e quattro mesi di reclusione, dovrà pagare le spese processuali e versare la somma di 3 mila euro alla Cassa delle Ammende, non essendo possibile escludere la colpa nella proposizione dell’impugnazione.