Lo sviluppo economico e sociale che ha permesso al mondo di conoscere le nostre terre e che ha trasformato cultura e tenore di vita di generazioni intere di nocerini
di Anna De Rosa
Nella seconda metà dell’ ottocento, quando l’economia svizzera ebbe un profondo tracollo, molti giovani in cerca di lavoro dovettero emigrare. Alcuni si recarono a Napoli, mentre altri, venuti a conoscenza della grande superficie territoriale coltivata a cotone, decisero di stanziarsi nelle nostre zone.
«Dopo aver ricevuto l’incarico per la costruzione di una nuova fabbrica, l’ingegner Escher, prima di decidere dove costruirla, girò tutto l’Agro nocerino fino a Castellammare, per poi soffermare la sua attenzione su Nocera, anche perché aveva notato l’attitudine al lavoro agricolo delle ragazze del posto e perché aveva individuato un terreno disponibile che, fiancheggiando la locale stazione ferroviaria, avrebbe potuto facilitare non poco l’arrivo della materia prima e la spedizione della merce finita. Prima della decisione definitiva, restava da risolvere il problema energetico che rimandava, avendo deciso di installare caldaie a vapore, all’indispensabile approvvigionamento idrico.» (dal libro in corso di pubblicazione di Gigi Di Mauro e Angelo Verrillo sulla storia dello sviluppo delle industrie tessili e alimentari nel nostro territorio). Quando trovarono una sorgente d’acqua nel sottosuolo, avevano eliminato l’ultimo ostacolo. Poterono quindi dare il via alle attività industriali. Grazie a loro, non solo si crearono nuovi posti di lavoro, ma addestrarono con competenza uomini e donne a compiti articolati. Così la nostra città, in breve tempo divenne “città d’ industria”.
«Da fine ottocento agli anni ottanta del xx secolo, “La Cotoniera”, così amabilmente chiamata dai nocerini, diede lustro e lavoro alla città. Migliaia e migliaia di operai e tecnici si alternarono nell’ occupazione e non ci fu famiglia che non avesse al proprio interno un “cotoniere”.» ( da Com’eravamo)
Un prodotto così delicato richiedeva turni di lavoro lunghi e duri, ma gli operai e le operaie rispettavano le ore di attività, facendo sì che nella fabbrica “filasse tutto liscio”. È grazie agli svizzeri, lungimiranti fino al punto di gestire anche il mondo sociale dei loro dipendenti, con la costruzione, tra l’altro, di scuole, che la nostra città si sviluppava e si rinnovava, acquistando importanza nei mercati nazionali e esteri. Alla fine della prima guerra mondiale, gli imprenditori elvetici furono praticamente costretti a lasciare questo “prezioso tesoro” nella mani di dirigenti italiani. Purtroppo la crisi economica giungeva alle porte, dando un freno al “boom” produttivo. «L’Iri prima, e l’ENI poi, si assunsero il gravoso compito della gestione e direzione delle Manifatture Cotoniere Meridionali, ma, come spesso capita alle imprese private da porre sotto tutela e, perciò, “statalizzate”, non raccolsero i frutti sperati.»
La competizione, lo sviluppo economico anche di altri paesi e la crisi portarono alla caduta di un prodotto eccellente. Si tentarono numerosi provvedimenti: aiuti economici da parte dello Stato, dimostranze sindacali, cassa integrazione prorogata a tempi mai ben definiti, ma senza nessun riscontro effettivo. E così “La Cotoniera” chiuse definitivamente.
Nel frattempo, molti cercarono di dar vita ad un nuovo prodotto alimentare, cercando di sfruttare le caratteristiche del territorio, ma nulla ebbe successo, anche per il legame dei cittadini nocerini e delle zone limitrofe al prodotto “fatto in casa”. Fino a quando, alcuni impresari, «adottando metodi di “lavorazione” artigianale», diedero vita ad una nuova avventura: le “conserviere” di Nocera. Grazie all’esempio dei conti Signorini, che rilevarono la “Cirio”, molti adepti si lanciarono con speranzosa fiducia in questo nuovo campo. Quindi nel giro di poco più di vent’anni, dal 1920 circa, personaggi di spicco come Gambardella e Spinelli; Gennaro Memoli e Pasquale Esposito; Galano, Esposito e Benevento; De Feo; Forino; D’Alessio e Sarno; Spera, Alfonso Cuomo e i Silvestri; Schiavo; D’Agosto diedero nuova vita a fabbriche e ciminiere ormai spente e in disuso. Ci fu quindi un’ ondata di nuove assunzioni: capi di fabbrica, manovali, meccanici, custodi ecc. Le strade erano piene di carretti carichi di cassette di pomodori raccolti nelle nostre zone, che venivano in seguito portate nelle fabbriche e lavorate da mani sapienti.
Inizialmente gli operai venivano sottopagati e dovevano sottostare ad orari di lavoro durissimi, ma successivamente si ebbero molte innovazioni sociali: «le “assicurazioni sociali”, la cassa mutua, l’assicurazione infortuni, la maternità per le lavoratrici, le colonie marine gestite da suore per i figli dei lavoratori.» Il ventennio ‘20/’40 portò lustro e prestigio alle nostre zone. A causa della guerra ci fu una pausa obbligatoria, ma nel 1946, quando gli industriali aprirono le fabbriche, riprese subito il ritmo frenetico della produzione, così intenso che nei mesi di luglio e agosto venivano chiamati numerosi stagionali.
Gli sviluppi tecnologici e la creazioni di nuovi macchinari da parte di imprese locali fecero si che il nostro “oro rosso” potesse essere esportato in tutto il mondo. Purtroppo, nel decennio 1970/1980 arrivarono «gli anni di fiacca», a causa della molta concorrenza, ma anche dei debiti contratti dagli industriali del conserviero con le banche, causati da un’ incapacità gestionale di fondo degli imprenditori e dal fatto che, di fronte alle difficoltà, questi si fossero sentiti allettati dalla bolla della speculazione edilizia ormai scoppiata.