Per tutti i nocerini era un’istituzione, come la vicina chiesa di Santa Monica e gli antichi palazzi che non ci sono più. Si chiamava in realtà Domenico Ravelli. Com’era la città nel 1989
di Raffaele Pucci
Domenico Ravelli: abbiamo dovuto aspettare che ci lasciasse per sempre per conoscere il suo nome per intero, e non l’avremo riconosciuto se sui manifesti di lutto i familiari non avessero aggiunto tra virgolette, “Minicuccio“.
Così abbiamo saputo che se n’era andato, e con lui un altro pezzetto del bel tempo che fu. Lo conoscevamo tutti la sempre, da quando piazza Santa Monica era ancora un tranquillo angolo ottocentesco, con la chiesa e il convento, non ancora “stravisati” da manie modernistiche, il Caffè Romano, coi suoi tavolinetti di legno tra piante verdi, dove ora c’è UPIM con davanti i contenitori traboccanti di immondizie. Dal lato opposto, il palazzo Gambardella, e, all’angolo tra Capofioccano e via Fucilari, il negozio di Baldassarre sotto il portico, con a fianco della chiesa, la pescheria e le carrozze di piazza in attesa di clienti. Era il cuore della città, ma un cuore che pulsava con calma, adeguandosi al mormorio della fontana al centro, quella stessa che raccoglie ora cartacce e rifiuti a piazza dè Santi. Alle spalle della fontana era piazzato il trono di legno e ottoni splendenti di Minicuccio, in attesa dei clienti che venivano a farsi lucidare le scarpe mentre davano un occhiata al Mattino o al Roma. Era il simbolo di un mondo più sereno, dove c’era ancora il tempo, la domenica almeno, per passare dal barbiere, a sentire gli ultimi pettegolezzi tra una pennellata e l’altra, e dove i pochi spiccioli che si davano a Minicuccio sembravano ben spesi, in cambio di cinque minuti di rilassata serenità. Furono gli anni d’oro di Minicuccio, che si guadagnava onestamente la vita, e a sera se ne tornava al suo abituro trascinandosi dietro allegramente lungo il Corso quel suo trono già pregustando un buon bicchiere di vino per ristorarsi dalle fatiche della giornata. Poi, la piazza cambiò: la chiesa d’un tratto divenne un aborto estetico, il Caffè Romano lasciò il posto a bar rumorosi, i cocchieri andarono in pensione, e tra i palazzoni incombenti presero a imperversare le auto. E in un mondo che andava per sempre più in fretta, non restò più spazio nemmeno per il povero lustrascarpe. Così Minicuccio, non riuscendo ad abbandonare il suo regno perduto, rimase lì, trasformandosi in posteggiatore abusivo. Ma ormai non era più lui: non esternamente, con quel suo volto di mela raggrinzito e il piccolo corpo di gnomo. Dentro, era cambiato: svanita la naturale allegria, se ne stava a volte seduto, muto e immusonito, sugli scalini della Chiesa, senza scuotersi neanche quando qualche automobilista lasciava lì vicino l’auto senza dargli il dovuto pedaggio. E qualche volta, a sera, capitava di vederlo ritirarsi con lo sguardo perduto dietro non so qual sogno ritrovato in fondo a qualche bicchiere. Ora se n’è andato, e se c’è un Paradiso di giustizia, Dio ve l’avrà accolto assieme al suo seggiolone d’ottone, e a quest’ora i beati staranno facendo la fila per farsi lustrare le aureole, fino a farle risplendere come solo lui sapeva fare.
da “La Cittanova” del 23 dicembre 1989