Una volta utilizzata dai monaci anche come azienda agricola, la trecentesca struttura vive abbandonata a se stessa tra l’incuria della Soprintendenza e del Comune, proprietario del 30% dell’immobile
di Delia Postiglione
Dietro un angolo del confine tra Angri e Sant’Antonio Abate, in via Pozzo dei Goti, giace abbandonata la Certosa di San Giacomo, un capolavoro architettonico del 1300.
All’epoca l’edificio faceva parte di un vasto feudo, cosiddetto “di Cancelleria e Paludicella”, che si estendeva da Angri a Santa Maria La Carità passando per Sant’Antonio Abate.
Voluta dal Gran Camerario del Regno Angioino, Giacomo Arcuccio, come ringraziamento ai certosini per la nascita del suo primogenito, la struttura fu per lungo tempo utilizzata dai monaci come grangia, ossia una sorta di azienda agricola che sfruttava le risorse dei terreni limitrofi per la produzione, conservazione e distribuzione di grano e sementi. Quando furono aboliti alcuni ordini monacali, nel periodo napoleonico, la certosa fu privatizzata passando prima nelle mani del cavaliere Andrea Dini e poi ai principi di Cerenzia che, infine, lottizzarono i loro possedimenti distribuendoli ai contadini del luogo. Nonostante nel 1988 sia intervenuto il vincolo della Sovrintendenza ai beni culturali di Salerno, la storica certosa ad oggi è lasciata a sé stessa.
Una parte è ancora abitata, probabilmente dai proprietari ma spesso anche da chi decide di occuparne qualche ambiente forte della totale assenza di controllo e interesse da parte di istituzioni pubbliche o religiose. Circa il 30% dell’edificio, invece, è detenuto dal Comune di Angri che, in passato, sembrava aver raggiunto accordi e compromessi per iniziare i lavori di restauro, poi risoltisi in nulla di fatto. Oggi, questo pezzo di storia locale è vittima di vandali, ladri e abusivismi, dopo essere sopravvissuto a guerre, battaglie e terremoti. Oltre a mancare una scala in piperno, originariamente collocata all’esterno, se si varca la soglia dell’antichissimo portale si possono intravedere, dal chiostro, capanni assemblati con materiali vari che rovinano l’estetica dei meravigliosi fregi architettonici, dei molteplici archi e persino di quella che, con molta probabilità, doveva essere una cappella.
Come spesso avviene dalle nostre parti, ciò che necessita tutela finisce per diventare oggetto di critiche ed essere visto come un pericolo: a causa di cedimenti strutturali fisiologici e crolli provocati da infiltrazioni d’acqua dovute alla mancanza del tetto, la certosa è un rischio per chi vive nel quartiere e parte della sua struttura è stata transennata. Sarebbe giusto, invece, che i cittadini si vedessero restituire una preziosa testimonianza del patrimonio culturale italiano e locale, così che possa essere riportata al suo fulgore e funzionalmente ridestinata al servizio della collettività e dell’arte.