Le festività pasquali hanno fatto passare in sordina la scomparsa di uno degli ultimi esponenti di garanti della qualità dei prodotti sulle nostre tavole. A fondare l’azienda il padre Giovanni, nel 1919
di Annamaria Barbato Ricci
La memoria collettiva di una comunità è costituita dalla sommatoria delle memorie dei singoli individui che in quel microcosmo hanno le radici. Così è avvenuto che un annuncio mortuario al solito angolo fra via Origlia e via Fucilari, aderente al muro di Santa Monica, topos eterni della nocerinità, abbia scatenato in me una concatenazione di ricordi di luoghi, di persone, di cose da fare concorrenza a Proust.
La mia personale ‘madaleine’ ha il profumo di… strutto (o sugna, in lessico familiare) e la sensazione di grande lavorio intorno a giornate speciali di metà inverno, quando, in auto, ci si recava al laboratorio ‘Amato’, “’ncopp ’e carrozze’” a ritirare pesantissimi pacchi di ‘tessuto adiposo suino’, per rifarci ad una definizione ‘scientifica’.
Poi la cucina si popolava di enormi pentoloni, messi a sobbollire per sciogliere i tocchi di grasso e riempire vasetti di creta verniciata bianca con il liquido bollente scaturente dalla loro spremitura (per lo più con capaci schiacciapatate manovrati da mia madre, che era piuttosto forzuta). Rapprendendosi, si creava una pasta compatta e candida che rendeva deliziose le ricette di casa, usandola al posto degli attuali oli o burro; non si buttava niente, perché gli squisiti ciccioli di risulta rendevano indimenticabile il sapore del pane caldo o dei fragranti ‘tortani’.
Quanti di voi, forse ormai bien agés, racchiudono nello scrigno della memoria questi fotogrammi d’infanzia? Scommetto molti e, dunque, il cognome ‘Amato’, per quanto diffuso in vari ceppi sul territorio, richiama in loro il ricordo non solo del laboratorio di norcineria, ma anche l’accorsata salumeria ubicata praticamente all’angolo del Corso verso piazza Santa Monica, sul lato destro per chi dall’adiacente via Saverio Costantino Amato (un altro nocerino illustre di cui si è persa memoria, poeta morto giovanissimo e malridotto, di cui i suoi coevi dissero un gran bene).
Fra gli annunci mortuari dei giorni di Pasqua è apparso quello di Aniello Amato, fra gli ultimi esponenti della generazione anziana di una stirpe che si era resa garante dei prodotti di qualità sulla nostra tavola. Certo, la premiata salumeria Amato era frequentata da una borghesia benestante che poteva permettersi di comprare il burro Plac o formaggi e salumi di gran marca, ma era pur sempre una sorta di istituzione cittadina, fondata nel 1919 dal capostipite commerciale Giovanni e portata avanti – checché me ne ricordi io – da alcuni dei suoi figli, ossia Franco e Aniello, nonché con la collaborazione di un commesso ‘storico’ come Antonio (Tonino) Amore, poi emancipatosi con un negozio proprio nella vicina via Fucilari, e un altro commesso di cui non ricordo il nome.
Nella valigia della mente, il ricordo di ‘don’ Giovanni Amato me lo rimanda come un signore spesso corrucciato, piazzato alla cassa e piuttosto impaziente verso la bambina irrequieta e curiosa che ero, pur tenuta a bada con rigore da Mamma e Zietta. Certo preferivo che al registratore di cassa, sistemato su una specie di pulpito di formica marrone a sinistra del negozio, ci fosse la moglie, una signora sempre sorridente, che faceva la differenza rispetto all’ingrugnito marito.
Il negozio era sempre pieno, a qualunque ora, e ci sottoponevamo a lunghe file perché qui si era certi di trovare il migliore prosciutto, dolce e ben stagionato, o le olive di Gaeta più polpose. Il bancone risaliva all’epoca dell’apertura del negozio ed era un vero capolavoro di arte del marmo, fra quello bianco e il rosso, quasi a sottolineare che si era in un santuario delle leccornie. Ad un certo punto, in un’epoca a cavallo fra la mia prima infanzia e la mia adolescenza, il bancone perse le colonnine ornamentali per motivi di efficienza, ma, sul palcoscenico della predella di legno rimase sempre protagonista lui, don Aniello, che aveva la grazia di un elfo gentile e la flemma di un londinese rimase a presidiare il territorio. Mai un gesto affrettato, persino l’affettatrice era manovrata con un ritmo da moviola. Vi era una specie di rito, fra i clienti: si entrava e si chiedeva, di fronte alla fila già presente: “Don Anié, quanto tempo?”; la risposta pareva tratta dal libro dei Proverbi: “Ci vuole il tempo che ci vuole”.
Un dire e non dire che metteva la cliente (in quanto la maggioranza della claque della salumeria era di sesso femminile) di fronte ad una scelta shakespeariana: restare o non restare? Per lo più si restava, stando bene attenti a non essere prevaricate dalle solite furbe che s’intrufolavano nella fila con la scusa che dovevano ritirare una spesa già fatta (sport ancor oggi in voga nelle nostre lande).
Vent’anni fa o giù di lì, questo tempio alla qualità dei prodotti alimentari chiuse i battenti: Grande Distribuzione, assenza del ‘tempo che ci vuole’ per la clientale e fidelizzazione evaporata contribuirono a renderlo obsoleto. Nel cuore dei nocerini doc, però, don Aniello ha avuto un suo posto ‘speciale’ ed era una gioia incontrarlo, ormai sempre più raramente, per strada. Ciò fino all’annuncio ferale della sua scomparsa, ipotizzo ormai quasi novantenne. Rimarrà nel nostro ricordo, insieme a quello dei prodotti sopraffini e genuini con i quali siamo stati nutriti, magari coltivando i prodromi di ipertensione e iperglicemia. Con i sapori della memoria che non sappiamo più ritrovare nei cibi di plastica e polistirolo espanso che gravitano sulle nostre tavole.