La Cassazione, nonostante il reato fosse prescritto, si è pronunciata sul caso di un uomo condannato a pagare 7 mila euro di ammenda per aver abbandonato il proprio cane
di Danila Sarno
Abbandonare il proprio amico a quattro zampe è un atto spietato e disumano, per il quale il nostro ordinamento prevede persino l’arresto. Per l’articolo 727 del codice penale, infatti, chi abbandona animali domestici può essere condannato fino a un anno di carcere o al pagamento di un’ammenda compresa tra mille e 10 mila euro.
La stessa sorte tocca a chi arreca gravi sofferenze agli animali e a chi li detiene in condizioni incompatibili con la loro natura. È proprio a questa norma che ha fatto riferimento la Cassazione nella sentenza numero 8408 del 2018. La vicenda era stata portata innanzi alla Suprema Corte da un uomo, accusato di abbandono di animale e condannato a pagare 7 mila euro di ammenda dal tribunale di Catania. L’imputato, nel ricorso, aveva sostenuto che la sentenza di primo grado fosse viziata nella motivazione, in quanto egli avrebbe legato il cane ad una ringhiera solo per effettuare una momentanea sosta, in attesa di riprendere il tragitto per portare l’animale alla propria abitazione. A detta della difesa, nella sentenza di primo grado, non solo non sarebbero stati indicati gli elementi che provano la volontà di abbandonare il cane o le sofferenze da questo subite, ma il giudice non avrebbe neppure preso in considerazione altre prove che avrebbero reso logica e priva di contraddizioni la versione dei fatti fornita dall’imputato. Tra gli esempi indicati nel ricorso: la distanza tra i luoghi, la fattura delle cure veterinarie e la deposizione del veterinario stesso o, ancora, la foto del cane con il padrone. Tuttavia, parte dei suddetti motivi di ricorso sono infondati, perché riguardanti questioni di fatto non valutabili in Cassazione. Inoltre, gli Ermellini hanno chiarito che la condanna riguarda solo la condotta contestata, pur avendo il giudice di Catania preso in considerazione anche i fatti successivi all’epoca di contestazione. La Corte ha poi ritenuto superfluo analizzare gli altri motivi indicati dal ricorrente perché, a ben vedere, il reato in questione si è estinto per prescrizione. Per cui, per l’imputato, vi è stato annullamento della condanna, seppure senza proscioglimento. Infatti il proscioglimento nel merito, in caso di estinzione del reato, può essere pronunciato solo se dalle prove risulta evidente l’innocenza dell’imputato e non se la prova di tale innocenza è insufficiente o contraddittoria, come nel caso in questione.