Finalmente posso parlare, passata è la tempesta, durante la quale volutamente mi sono imposto il silenzio, non volendo per nulla al mondo apparire partigiano di taluna o tal’altra delle parti in competizione,
nutrendo verso tutte indistintamente un sovrano disprezzo intellettuale, a causa del quale non sono andato a votare.
Ma ora fra tanti, politici giornalisti commentatori analisti, che cinguettano ballonate sul come e il perché, voglio dire anche la mia. E secondo me per capire bisogna preliminarmente procedere ad una riconversione totale delle proprie categorie mentali, riadattandole alle profonde e rapide mutazioni in atto della composizione delle società attuali. Mutazioni che hanno determinato a loro volta una mutazione del processo genetico del valore del contenuto e del significato del voto quale strumento di espressione della classe dirigente.
Una volta si votava per appartenenza, ad una classe ad un ceto ad una categoria ad una professione ad una tradizione ad una concezione della vita e di conseguenza ad un partito e si votava per le persone che incarnavano o dicevano di condividere quegli stessi valori in cui ciascun elettore si identificava. L’operaio, il borghese, il professionista, la casalinga, il benestante, l’industriale, il contadino, il professore, il cattolico, il laico, votavano in un certo modo in base alla propria rispettiva appartenenza e votavano per certe persone dando loro una delega in bianco a rappresentarli. Perciò si chiamava democrazia rappresentativa. Ora non più.
Non c’entra niente se Renzi ha sbagliato o no, se è simpatico o no, se il governo ha fatto bene o male, se tornano i fascisti o no, se il PD si è scisso, se la sinistra è più o meno di sinistra, se l’Europa ci danneggia o ci aiuta, se ci sono o no i migranti, se ha ragione D’Alema o Salvini o Berlusconi. Non si spiegano così le dimensioni del terremoto elettorale che si è verificato. Ho sentito dire in televisione, non so da chi, una saggia parola “L’Umanesimo è finito”.
Ora contano le cose, il denaro e la comunicazione virtuale. Non si vota più per le persone o per le idee. La gente vota per dire a quelli che governeranno, chiunque sia, ciò che vogliono e che chiedono che loro facciano, l’elettore vuol esser lui a dettare l’agenda, non vuol più dare deleghe in bianco. Aspira alla democrazia diretta, non vuole più la democrazia rappresentativa.
Con questo voto gli italiani hanno detto che vogliono: più aiuto dallo Stato in economia, in assistenza, in previdenza, nelle calamità, più lavoro, che non gliene frega niente dello spread, del PIL e del debito pubblico, più sicurezza, più chiarezza, più giustizia, meno Europa, meno burocrazia, meno globalizzazione. E vogliono che i loro governanti siano persone qualunque, angioletti con l’aureola, molto gentiloni, senza autorità, senza ambizioni, asessuati e mezzo morti di fame. Tutte cose difficili da mettere insieme. Chiamatelo populismo, se volete, ma con una Costituzione che dice che la sovranità appartiene al popolo, populismo e democrazia sono la stessa cosa. Pronti a sbaraccarli appena non li soddisfano.
Attenzione! Può darsi che di questo passo prima o poi rifiuterà persino il voto. E’ questo il vero pericolo, non quei quattro scalmanati in camicia nera, l’eclisse del voto quale libero strumento di espressione della classe dirigente.
Del resto, quando questo strumento è stato adottato, nel mondo, da regimi come quelli di Turchia, Iraq, Iran, Afganistan, Russia, Egitto, Stati tribali africani, ove ha il peso e il valore che ha, quale valore può più avere in questi minuscolo angolo di mondo che è l’Europa se non quello di reperto archeologico.
Forse quel Casaleggio padre, prematuramente scomparso, doveva essere un gran cervello, che abbiamo sottovalutato per la sua scarsa presenza mediatica, focalizzandoci su Grillo che era soltanto il megafono strillazzante di una filosofia politica ben più profonda che aveva capito in anticipo il corso delle mutazioni epocali in atto. Non a caso la democrazia diretta, il vincolo di mandato, lo strumento mediatico, l’indifferenza alle classificazioni di destra e sinistra, rappresentano le linee direttrici del patrimonio culturale di fondo dei 5 Stelle che li ha portati all’attuale successo.
Aldo Di Vito
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