Mi son chiesto perché proprio in questi giorni mi sia messo a ripensare al famoso articolo che Emile Zola scrisse il 13 gennaio 1898, sul settimanale litteraire, artistique, sociale l’Aurore, dal titolo J’Accuse, nel quale, sotto forma di lettera aperta al Presidente della Repubblica Felix Faure,
denunciò gli errori, gli intrighi, le ingiustizie, le nefandezze che avevano inquinato l’istruttoria ed alterato la verità nel processo che condusse alla condanna di Alfred Dreyfus per alto tradimento e collusione con la Germania. Egli lo scrisse per corrispondere ad una rivolta dell’anima di “uomo onesto, al suo dovere di parlare, di dire la verità perché aveva promesso di dirla” , perché “la Francia ha sulla guancia questa macchia… questo crimine sociale… dell’abominevole affaire Dreyfus, un uomo innocente che espia laggiù nella più spaventosa delle torture un crimine che non ha commesso”.
Eppure mi è capitato spesso, nella mia lunga immacolata carriera di avvocato penalista, di difendere qualcuno che si trovava a marcire e soffrire in carcere mentre ben sapevo che era innocente, come faticosamente mi sforzavo di dimostrare, alla fine il più delle volte riuscendovi, ma non sempre. E tuttavia non ho mai evocato né retoricamente invocato né Zola né Dreyfus. Probabilmente perché non mi è mai capitato di imbattermi, nella civilissima Italia postbellica, culla del diritto e antirazzista, in un processo così spudoratamente e perfidamente manipolato al premeditato fine di condannare l’imputato, come fu il processo a Dreyfus, architettato e costruito dall’entourage militar-nazionalista francese, per addossare ad un ebreo la colpa della sconfitta del 1870.
Con atto di superlativo coraggio Zola scrisse “J’accuse le lieutenant-colonel du Paty de Clam d’avoir été l’ouvrier diabolique de l’erreur judiciaire, le général Mercier de s’être rendu complice, le général Billot d’avoir eu entre les mains les preuves certaines de l’innocence de Dreyfus, le général de Boisdeffre et le général Gonse de s’être rendus complices du même crime, le général de Pellieux et le commandant Ravary d’avoir fait une enquête scélérate, les sieurs Belhomme, Varinard et Couard, d’avoir fait des rapports mensongers et frauduleux, les bureaux de la guerre d’avoir mené dans la presse, particulièrement dans L’Éclair et dans L’Écho de Paris, une campagne abominable, le premier conseil de guerre d’avoir violé le droit”, fece cioè nomi e cognomi dei responsabili dell’infame complotto giudiziario che portò alla condanna di Dreyfus. È tanta l’ammirazione che volentieri lo imiterei se avessi tra le mani un caso particolare come il suo, mentre invece sto parlando in generale, senza alcun riferimento specifico.
E poi ho paura.
Tornando ab ovo, forse è per questo che mi sono ricordato del j’accuse di Zola, forse a causa di un imbarbarimento strisciante del clima culturale e giudiziario, per ciò che apprendiamo quotidianamente da giornali e televisioni; forse perché anch’io non sopporto di vedere macchie sul volto del mio paese; forse perché, ormai un po’ distante dall’agone infuocato delle aule giudiziarie, guardo le cose dall’alto di una visione alta del diritto e della morale che non è la stessa di quella degli avvocati dei magistrati dei giornalisti dei politici e dei preti, i quali parlano sempre di legalità senza capire che legalità è una cosa e giustizia un’altra e non sempre coincidono; forse perché nell’imminenza delle elezioni, di fronte alla prospettiva, tutt’altro che peregrina, di un’alleanza di governo fra 5 Stelle e la magistratura, m’invade il terrore del trionfo del giustizialismo e di un regime torquemada-poliziesco.
E già oggi ho la sensazione di vivere in quel periodo della Controriforma, allorchè i grandi scrittori Erasmo, Spinoza, Campanella, Decartes, per evitare di essere tacciati di eresia e magari bruciati sul rogo, citavano a sostegno delle loro teorie testi insospettabili della storia del pensiero e soprattutto le Sacre Scritture. Quindi anch’io come loro, per non cadere in diffamazione o apologia di reato, citerò Gesù, che più insospettabile non si può, il quale quando impartiva i propri insegnamenti soleva dire ai suoi discepoli “popolo di dura cervice”, sarebbe a dire “cretini, non capite niente” e però aggiungeva “chi ha orecchie per intendere intenda” che sarebbe a dire “chi vo’ capi’ capisce”.
Aldo Di Vito
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