Caro Gigi, come sai riemergo da una sala operatoria e da un letto d’ospedale,
dentro i quali non ho avuto né il tempo né la capa di occuparmi dell’articolo che un tal Iannone ha voluto dedicarmi, in difesa d’ufficio di un suo amico, e che correttamente hai pubblicato sul tuo giornale. Né intendo occuparmene adesso, non solo in obbedienza al canone procedurale secondo il quale la difesa deve avere l’ultima parola ma anche perché, come accade dopo esperienze di vita, e di probabile morte, drammatiche e sofferte, si coltivano più alti e profondi pensieri di quelli banali di vita quotidiana.
Voglio in primis ringraziare pubblicamente quelli che, appreso il mio infortunio fisico, non mi hanno fatto mancare il conforto e il calore del loro affetto, primo fra tutti il caro Manlio che mi è stato vicino come un figlio, confermando la giustezza di quanti lo definiscono mio “figlioccio”, del che vado fiero.
Molti mi chiedono dove ti sei operato, a Milano a Roma a Parigi a Zurigo a Panecuocolo, in quale clinica esclusiva, da quale professore illustre luminare di scienza medica e chirurgica etcetera. Ebbene no, a parte che non ho i soldi per permettermelo, odio simili cineserie snobistiche ed esterofile, e ho voluto essere operato nella mia città, nel mio ospedale, dai miei chirurghi, e precisamente l’ottimo dottor Napodano, e assistito dai miei medici e dai miei infermieri, che hanno sopportato pazientemente un paziente impaziente e rompipalle quale io sono, e me ne trovo contento e “nun ne pozzo chiudere vocca”.
Che me ne faccio della perfezione svizzera, della stanza esclusiva con televisore e frigorifero, di un medico che non ti parla e non ti spiega nulla perché lui è un professore e tu sei un ignorante, di un infermiere che non ti sorride e che ti ficca l’ago nel culo senza neanche guardarti in faccia, che ti manifesta tutto il suo fastidio se lo chiami troppo spesso.
E sopratutto fra la mia gente, gli altri ammalati della corsia, i loro parenti, i loro amici che venivano a visitarli, che spandevano intorno calore amicizia cordialità comprensione umanità, un signore che assisteva di notte suo padre mio vicino di letto me lo vedevo immediatamente accanto non appena mi sfuggiva un lamento pronto a prestarmi soccorso, un ragazzo febbricitante con un testicolo gonfio e infiammato si buttava dal letto per aiutarmi ad andare in bagno non appena accennavo ad alzarmi. Questo grande grande popolo meridionale e partenopeo che è la spina dorsale che tiene in piedi questa Italia sconnessa e traballante. Sono queste le grandi esperienze che ti cambiano la vita.
Esperienze che dovrebbero fare quei giornalisti che non perdono occasione di dire e scrivere cose che non sanno, che spigolano su quel dieci per cento di casi che vanno storti sul novanta per cento di esiti quotidiani positivi e a volte eccellenti e strabilianti che restano oscuri, che sputano discredito e malevolenza addosso a una intera categoria di medici e paramedici solerte preparata saggia e competente che fa il proprio dovere malgrado malpagata, con turni incredibili, mal diretta e priva di adeguate risorse.
Non vuol dire che non vi sia del marcio, in alto soprattutto in alto, nella managerialità incompetente e disattenta nelle nomine nei primariati nei concorsi negli appalti negli acquisti nei favoritismi nell’organizzazione nella programmazione nell’altalena fra lesina e spreco nei campanilismi nel clientelismo nelle liste di attesa, espediente regolatore dei rapporti con la sanità privata, insomma il marcio annidato nell’assurdo cordone ombelicale tra scienza e politica.
E’ questo nefasto cordone ombelicale che bisogna recidere.
Aldo Di Vito
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