Sono in molti che aupicano un ripensansamento delle gerarchie ecclesiastiche sull’isolamento del religioso, che ha permesso la ricostruzione del convento e gli ha ridato vita
di Nino Maiorino
Io non credo che la parentesi di fra’ Gigino a Cava sia veramente conclusa, pure se per le voci dei portici fra’ Luigi Petrone, il monaco della comunità francescana del convento di San Francesco e Sant’Antonio di Cava de’ Tirreni “autore” della ricostruzione del complesso dai danni del terremoto del novembre 1980, sembra sia stato estromesso da tutte le attività del convento e della chiesa.
Qualcuno evidenzia le sempre più frequenti assenze del frate nel convento e nella chiesa: l’ultima, la più eclatante, quella in occasione della cerimonia religiosa del 4 settembre con la levata del panno dell’immagine di San Francesco. Di cavesi avversi al frate non ne mancano, contrari anche all’aggregazione di tantissimi pellegrini intorno a questa comunità francescana, sulla quale fra’ Gigino ha puntato il rilancio. Anche una parte del clero ha soffiato sul fuoco, e non sempre per motivi di etica religiosa. Si vuole forse il ritorno a una chiesta vetusta e poco aperta ai fedeli?
Io sono perplesso e intimamente portato a non crederlo: non possono esistere nostalgici del tempo che fu e che oggi non è più.Il mondo corre, con passi da gigante, la chiesa non può non stargli dietro: i vecchi e superati cerimoniali non vanno più inseguiti, il Concilio Vaticano II voluto da Giovanni XXIII ha dato la prima grande svolta e i Pontefici che l’hanno succeduto hanno operato in quel solco. Oggi Francesco sembra incarnare più di tutti l’anelito della chiesa a stare al passo con i tempi, a stare vicina alle masse, da conquistare alla fede anche mediante riti non propriamente religiosi che però aggregano. Fra’ Gigino, a Cava, non ha fatto altro che mettere la comunità al passo con i tempi, e, oltre ad aver avuto il grande merito di effettuare la ricostruzione della chiesa e del convento, ha avuto anche la intuizione che se l’opera fosse rimasta una splendida cattedrale nel deserto nessuno, a parte gli originari apprezzamenti, l’avrebbe quotidianamente vissuta, come invece è stato nell’ultimo ventennio. Ed è per renderla fruibile ad un numero sempre crescente di fedeli e pellegrini ha “inventato” innumerevoli attività aggregative che hanno raccolto attorno alla comunità folle di pellegrini provenienti non da Cava, almeno non solo, ma da tutta la Campania e da altre regini d’Italia, ed ha creato una rete che si estende alla Sicilia, alla Puglia, e ad alcune città della Spagna. Ma allora, dicono i detrattori, più che un frate è stato un imprenditore? Forse si, ma se si deve stare al passo con i tempi, e l’imprenditore aiuta, ben venga anche l’imprenditore, che si chiami fra’ Gigino o fra’ Pincopallino. D’altronde basta girarsi intorno per rendersi conto della necessità di fare ciò.E se non si vuole andare lontano, basta guardare alla basilica della Beata Vergine del Rosario di Pompei, che già da decenni si è data una struttura del genere, tant’è che in talune occasioni pure ha avuto critiche. Per non parlare dei santuari che sono divenuti fari di francescanesimo, come quelli di Assisi e di La Verna: anche essi si sono adeguati ai tempi ed alle moderne esigenze dei pellegrini, ed hanno addirittura trasformato i conventi in alberghi e ostelli, e i refettori in ristoranti.Per non parlare di Lourdes, o Fatima, e oggi Medjugorje.
Tutti ispirati da Satana? Ma mi facciano il piacere, per dirla con Totò. E per tornare a fra’ Gigino ritengo che le autorità della sua la comunità farebbero bene a riflettere sul trascorso ventennio durante il quale il frate è stato il “deus ex machina” della ripresa del santuario, e, considerati i risultati, piuttosto che limitarlo e comprimerlo, nuovamente motivarlo affinché riprenda le redini e prosegua nell’opera avviata.