Il figlio di Giorgio, la cui storia è stata anche soggetto di un film interpretato da Luca Zingaretti: «Fare memoria è fondamentale per tracciare un futuro di pace»
di Annamaria Barbato Ricci
Cosa provi nello scoprire improvvisamente che tua padre, che hai sempre visto come un papà ‘normale’, che alacremente lavora e ti dedica attenzioni e affetto, e ti sembra eguale al papà di tanti amici e compagni di scuola, in tempi in cui tu non eri neanche nato, ha vinto una sua specialissima guerra, salvando 5300 ebrei ungheresi dalle grinfie dei nazisti?
Pare una domanda che potrebbe porsi il protagonista di un romanzo, ma è invece quello che è accaduto a Franco Perlasca, e neanche tanti anni fa. Il figlio di Giorgio ha portato la sua testimonianza, venerdì scorso, ad un incontro organizzato al Sanseverino Park Hotel dal Rotary Club Nocera Inferiore – Sarno, occasione che ha richiamato i dirigenti e i soci anche di dieci e più altri club ‘confratelli’ della Campania, oltre che di alcune personalità del mondo rotariano.
In un momento storico in cui i tamburi di guerra non sono neanche tanto lontani; in cui profughi ed emigranti per motivi economici approdano in Italia alla ricerca di solidarietà e di una vita migliore, la storia di Giorgio Perlasca, insignito del titolo di Giusto fra le Nazioni, è la prova che, in nome di un dovere etico supremo, si può (e si deve) agire con sommo altruismo.
La sua vicenda è diventata nota solo molti anni dopo la fine della guerra. Con pudore e understatement, quest’eroe del conflitto mondiale, rimasto sconosciuto all’opinione pubblica, aveva taciuto persino in famiglia. Racconta Franco Perlasca in un’intervista rilasciataci prima della conferenza:
«Io sono nato nel 1954, quando ormai mio padre era tornato a casa da circa nove anni, facendo un giro ampissimo da Budapest per riabbracciare mia madre, sua moglie già dal 1940.
Neanche lei era al corrente dell’esperienza che lui aveva vissuto né della circostanza che si era spacciato per diplomatico spagnolo, sì da raggirare i nazisti tedeschi e i loro sodali ungheresi, per salvare migliaia di ebrei dal ferale destino del campo di sterminio.
Appena ritornato a casa, aveva stilato un memoriale in tre copie: uno lo indirizzò al Governo italiano, l’altro a quello spagnolo – e da nessuno ebbe risposta – mentre l’ultima la seppellì in un cassetto di casa.
La mia nascita, tanti anni dopo il matrimonio e con i miei genitori che avevano perso ogni speranza di diventarlo – ai tempi, una gravidanza oltre i quarant’anni era molto più rara di oggi – fu considerata un vero miracolo. Che io rammenti, non si rievocarono mai in famiglia gli anni del dolore della forzata separazione per cause belliche e solo molto sporadicamente mio padre citava qualche episodio vissuto in quel periodo buio, a Budapest».
– Quali sono i primi ricordi che ha di suo padre?
«I momenti gioiosi delle domeniche estive, trascorse insieme a Col di Piana, a Belluno. Allora era estrema periferia cittadina e i miei affittavano per luglio ed agosto un appartamento. Papà ci raggiungeva solo la sera del sabato, dopo il lavoro.
All’epoca aveva dovuto letteralmente reinventarsi. Agli inizi degli anni ’60, il tracollo della Liquigas lo aveva costretto a trovare un altro impiego al ristorante self – service “La Mappa” di Padova, il primo in città che ebbe molto successo ed esiste ancora ora. Ricordo di averlo accompagnato al mercato ortofrutticolo, per gli approvvigionamenti del ristorante; oppure, nelle escursioni estive in montagna, a raccogliere ciclamini. Ne facevamo piccoli bouquet che venivano donati il lunedì mattina, alle clienti de’ “La Mappa”».
– Dunque, suo padre non ha mai fatto cenno alla vicenda vissuta a Budapest, neanche quando lei studiava la storia della seconda guerra mondiale?
«Non so ora, ma quando frequentavo io la scuola, i programmi svolti non arrivavano certo allo studio della seconda guerra mondiale, né della Shoah, e a malapena sfioravano la Grande Guerra.
Mio padre amava la storia e mi ha trasmesso la sua passione; sin dall’infanzia mi ha regalato molti libri di argomento storico. Il primo fu “Centomila gavette di ghiaccio”, di Giulio Bedeschi, nell’anno in cui vinse il Premio Bancarella, ossia il 1964. Io avevo dieci anni e mi appassionai alle dolorose vicende delle truppe italiane in Russia, tanto che lessi anche il seguito dell’opera, nel ’66, “Il peso nello zaino”. I giornali s’interessarono a mio padre grazie a Furio Colombo, alla fine degli anni ’80, il quale gli dedicò un articolo su ‘La Stampa’. Lui ha fatto molto e non solo per mio padre: anche su sua iniziativa fu istituita la ‘Giornata della Memoria’ il 27 gennaio.
Ogni riconoscimento per mio padre è stato piuttosto tardivo: nell’aprile del ’92, l’ultimo atto di Francesco Cossiga da Presidente della Repubblica fu la concessione della medaglia d’oro al valor civile; mio padre morì nell’agosto successivo e i tempi burocratici fecero arrivare a casa la notizia solo a settembre inoltrato. Il vitalizio per la legge Bacchelli gli fu assegnato, ma appena tre mesi prima del suo decesso. Consapevoli della sua volontà di perpetuare un messaggio di pace e di solidarietà nella cornice dei diritti umani, qualche anno dopo la sua scomparsa, creammo un’associazione con sede a Padova, di cui fu socio fondatore il dottor Colombo, oggi divenuta una fondazione».
– Quali sono gli obiettivi che perseguite?
«Vogliamo ricordare mio padre e moltissime altre figure di Giusti fra le Nazioni che hanno combattuto nella trincea del bene. E non solo. Il nostro impegno riguarda le tante persecuzioni di popoli che hanno caratterizzato il ‘900 ma anche i giorni nostri, come quella degli Armeni.
Organizziamo, poi, specialmente con scolaresche, molti viaggi della memoria, ad Auschwitz ma anche a Budapest, visitando i luoghi dove mio padre operò, dando rifugio agli Ebrei ungheresi in case di accoglienza, prima di dotarli di un salvacondotto che ne attestava le origini sefardite e, dunque, la loro ascendenza spagnola, quindi cittadini di un Paese neutrale.
Fare memoria è fondamentale per tracciare un futuro di pace. Ci impegniamo allo spasimo in questa direzione: come memoria e monito delle tragedie insite nelle persecuzioni e nelle guerre, sette anni fa, in occasione del centenario della nascita di mio padre (1910), con l’aiuto di Piero Angela, anche lui figlio di un Giusto fra le Nazioni, realizzammo un documentario sull’esperienza di mio padre».
Co-protagonista della conferenza è stato anche Francesco Avallone, esule fiumano con sua madre e suo fratello, ma di origini salernitane. Da lui sono stati rievocati i tragici ricordi delle foibe, altro orrore del ‘900: una tragedia concatenata ad un’altra tragedia, giacché l’ex questore di Fiume, Giovanni Palatucci fu deportato dai nazisti a Dachau, mentre il padre di Avallone, diretto collaboratore del questore, fu catturato dai titini e infoibato, incolpato solo di ‘essere italiano’.
Sua moglie e i suoi due bambini furono rimandati in Italia, privati di ogni avere e giunsero, dopo un viaggio periglioso e da incubo, in un campo profughi a Salerno, luogo di nascita dei due genitori. Con misura e dignità, Francesco Avallone ha raccontato la vicenda che ha vissuto sulla propria pelle, aggiungendo pathos al pathos. L’inquietudine era latente: riusciranno gli uomini a non ricascare più in questi orrori? Le esperienze più recenti sono desolanti, anche se l’esistenza stessa dell’Unione europea ci ha donato settant’anni di pace. Il che giustifica la sua tutela, contro gli sterili e sanguinari nazionalismi. Un messaggio di pace di cui il Rotary si fa propagatore.