Subito dopo Pasqua il negozio chiuderà, forse sostituito da una rivendita di surgelati. Un altro pezzo della storia minuta di un luogo che se ne va, lasciandoci con un brandello del passato in mano

di Annamaria Barbato Ricci

Anche noi nocerini abbiamo le nostre brave ‘madaleines’, mica solo Marcel Proust! Ovvero qualcosa di buono, il cui sapore o persino l’odore scatena un meccanismo automatico nella memoria. Le nostre ‘madaleines’ erano le brioches di Izzo Ciro.

Non a caso ho usato il tempo verbale al passato, giacché subito dopo Pasqua il negozio sul Corso chiuderà, forse sostituito da una rivendita di surgelati. Un altro pezzo della storia minuta di un luogo che se ne va, lasciandoci con un brandello del passato in mano.
Ho saputo di questa chiusura da poche ore da mia sorella Adele, colei che, insieme a mio marito, contribuisce a nutrire le mie ‘radici nocerine’, e, per me, è stato un tuffo al cuore. Non esagero se vi dico che è stato come se mi avessero detto che un caro amico, con cui avevo condiviso 60 e passa anni di vita, non ci fosse più.
Confesserò: mi è persino spuntata la lacrimuccia. Ed è scattato istintivamente il susseguirsi di fotogrammi che, da qualche parte della memoria, era stato catalogato sotto la voce ‘Io e Izzo Ciro’.
Mi è comparso innanzitutto il personaggio patronimico del negozio, il signor Ciro Izzo. Non so se c’è stata una confusione d’immagini, perché ormai di tempo ne è passato, ma ho richiamato nella memoria le sembianze di un uomo non alto, magro, dai capelli radi e bianchi – ricordo bene o sovrappongo persone del mio passato? -, sempre festoso quando entravamo nel suo negozio.Ricordo vagamente che ci diceva di essere stato alunno del mio bisnonno (ma quando? Mi pareva che fosse nato a Castellammare di Stabia, luogo dai biscotti celebri) e ne magnificava la figura austera. Forse lo confondo col pasticciere Alfonso Vitolo, anche lui devoto al nonno Pietro che era morto a Natale del 1924 ad appena 64 anni.
Da Izzo Ciro, quando ero una piccola analfabeta, allergica all’asilo (o forse l’asilo era allergico alla mia iperattività e le suore mi trovavano dappertutto fuorché in aula, mentre invece gradivo fare reportage giornalistici dalla loro cucina) si andava a comprare le freselle, i biscotti della salute, gli ancinetti trasudanti golosissima glassa e, soprattutto, i ‘nicchi nacchi’.
Non so se si chiamassero davvero così o era un’invenzione del mio lessico familiare riferendosi ai biscottini a forma di letterine – è così che imparai a leggere da bebè – o di animaletti. Concupivamo un vero zoo e dal sacchetto marroncino pescavamo giraffe, mucche, pecorelle ed elefantini.
Diventata un’intellettuale di prima elementare, Izzo Ciro, premiata ditta fondata nel 1925, divenne la mia meta fissa prima di approdare affannata all’aula, nel cortile del Municipio.
Involontariamente, rappresentava uno status symbol: chi, come me, metteva in cartella la brioche a girandola (la più costosa: veniva forse 20 lire?) rivendicava il proprio lignaggio; quando erano finite e arrivavamo sul filo di lana prima che suonasse la campanella, poteva capitare che Zietta comprasse la brioche da 10 lire, a forma di maritozzo: era quella la volta che io mi sentivo un po’ declassata.
Da brava schifiltosetta, mi tenevo alla larga dal pezzo di pane e mortadella delle compagne di scuola meno abbienti, mentre mia sorella ne era fortemente attratta, proprio lei che per mangiare è sempre stata difficile. Magari avrei voluto mangiarla, ma era anch’essa proibitissima, non so per quale ragione, la cotognata confezionata nel cellophane, che mi veniva negata manco fosse a base di cianuro.
Eppure, ce ne arrivava in quantità generose nel gigantesco pacco natalizio che l’azienda conserviera ‘La Romanella’, di cui mio nonno era stato consulente legale e bancario, ci faceva pervenire anche anni e anni dopo la sua morte, segno tangibile della devozione che i fratelli Gambardella, fondatori dell’impresa, nutrivano per lui (mi pare che fosse stato anche padrino di cresima del figlio di uno di loro).
Ricordo tira ricordo, come le ciliegie. Torniamo a Izzo Ciro e alle quattro generazioni che hanno scritto la storia del negozio: che io mi ricordi – ma sono stata via tanto tempo, anche da adolescente – dopo di lui, ma forse c’era pure una moglie, non so, presero le redini dell’attività la figlia e il genero (l’amabile Iole e Annibale Amodio?) e poi il loro figliolo Nino e la moglie.
Negli ultimi anni, ad accogliere i fedeli clienti, c’era la giovane generazione con Iole, dagli occhi vellutati da cerbiatta e il dolce sorriso.
Quasi un’amputazione questa chiusura: d’altronde, non era uno scherzo gestire un forno garantendo la qualità dei prodotti e tenendo dietro agli orari proibitivi e al tran tran del negozio. Comprensibile questa decisione, ma la ragionevolezza non può mettere a tacere il rimpianto, la nostalgia. Ammettiamo però che questi egoistici sentimenti ed emozioni sono dettati, piuttosto, dallo sbattere il naso contro la testimonianza del passar del tempo, del nostro invecchiare, quando, invece vorremmo che tutto fosse cristallizzato, rimanendo immutabile, quasi a garanzia della nostra immortalità.

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