I ricordi di una nocerina “emigrata per lavoro”, e la tradizione del mercatino del pesce del 24 dicembre, con i pescivendoli che si conquistavano la postazione la notte prima e le cantilene urlate per attrarre i clienti

di Annamaria Barbato Ricci

Giunta alla cifra tonda di sessant’anni, che, quando ero adolescente, equivaleva alla più decadente senescenza, da brava barbogia con una memoria remota più forte di quella recente, rievoco tempi lontani, che paiono immersi in un’atmosfera fiabesca.

Quasi come feticci voodoo, mi appaiono quelle caterve di bambole adorna-letto che i clienti di mio padre, creatore di un sindacato fra commercianti venditori di vino, donavano in gran copia, omaggiando questa figlioletta un po’ eterea, che immaginavano delicata come un fiorellino.
In realtà, ancora oggi mi è rimasto impresso il senso di sacro terrore che mi incutevano quelle enormi bambole mostruose, quasi più grandi di me e i pianti disperati, con cui rispondevo ai tentativi di mio padre di farmele apprezzare. Credo che mia madre sia stata la più grande spacciatrice di bambole con enormi cappelli di paglia mai vistasi nel circondario, disseminando per colf e ‘commarelle’ le disdegnate pupone.
Il supposto fiorellino, invece, reduce da una nascita rocambolesca e da una scarsa alimentazione nella vita intrauterina, aveva sviluppato una fame che quella del Lupo di Cappuccetto Rosso era paragonabile a un colibrì. Sono stata sempre di appetito vorace, tant’è che al Liceo, la mamma di una compagna di scuola inappetente, m’invitava a pranzo per rifarsi gli occhi. Mai posso dimenticare un Natale durante la nostra residenza napoletana, (avrò avuto 10 anni) quando i miei genitori e gli zii venuti da Nocera comperarono un enorme petto di tacchino in un’elegante rosticceria del Vomero, la Villa di Lucullo, all’angolo fra via Luca Giordano e via Scarlatti.
Ebbene, quando fu l’ora di mettersi a tavola, si accorsero che gran parte del ‘bottino’ era stato da me spolverato senza pudore. Non potevano neanche pensare a un concorso di colpa con mia sorella, notoriamente svogliata a tavola e capricciosa. Sempre della serie delle scorpacciate natalizie, nell’aneddotica familiare, è rimasta l’immagine di una visita degli zii milanesi (ho avuto zii milanesi doc, non emigrati, grazie a una sorella di mia nonna, zia Carmen, andata in isposa ad un intellettuale comasco, biografo di Alessandro Volta e prolifica madre di cinque figli) che, doveva essere intorno al 1964 – 1965, ci portarono la novità del pandoro. Io che ho sempre detestato il panettone in quanto i canditi, sin dall’infanzia, mi hanno dato la nausea (non si sa perché), gradii in modo particolare la novità. Talmente particolare che, allorché  si trattò di tagliare il pandoro per la mezzanotte, fu trovata solo la scatola vuota. Meno male che mio padre, dalla sua schiera di clienti, aveva ricevuto quantità industriali di dolci, leccornie varie, comprese i famosi raffaioli imbottiti e persino pastiere fuori stagione, altrimenti avrei fatto rimanere tutti, compresi i generosi ospiti e le mie mitiche prozie, Michelina Citarella e Giulia Barbato, senza dolce.
Anche queste due distinte signore sono state protagoniste dei miei Natali da bambina: vi era una sotterranea concorrenza fra loro, alla conquista delle attenzioni di noi familiari ed ho ricordi bellissimi della pazienza che avevano nei miei confronti. Zia Michelina era la mia madrina di battesimo, salita di gran carriera a casa nostra quando il pediatra mi decretò poche ore di vita e don Alfonsino de Angelis mi somministrò l’olio santo double face, per la battezzanda e la moribonda. Da lei ho ricevuto una grande schiera di antichi cappelli per giocare ‘alla signora’ ed era la proprietaria di una poltrona double tirabaci, che io chiamavo ‘la sedia dei fidanzati’. La adoravo da lontano, perché era collocata nel salone di zia Michelina, un luogo arredato con bellissimi mobili dell’800 ma che, ai miei occhi di bambina, era off limits, giacché sul divano era collocata un’enorme fotografia del mio bisnonno, un signore dicono buonissimo, ma fiero di certi baffoni a manubrio che mi facevano paura. Inoltre, di lato, su un enorme cavalletto, c’era la foto della sorella di nonna, zia Maria, maritata Costabile, morta credo nel 1920 per un’affezione polmonare. Anche quella foto, ai miei occhi di bimbetta ‘cacarona’, aveva un che d’inquietante: eppure zia Marietta aveva occhi dolci e viso delicato, con un marito non proprio raccomandabile e neanche la consolazione di un figlio. Leggendo Gozzano, era davvero il salotto di Nonna Speranza.
Zia Giulia viveva sul Corso, il suo balcone era quello che attualmente è giusto sul negozio di Carpisa. Un balcone da cui ci si godeva comodamente il passeggio e che fu quello dell’appartamento occupato dai miei nonni materni giovani sposi. Una delle più celebri foto di Nocera antica, risalente al 1923, immortala mia nonna affacciata con accanto mia zia Tilde piccina (aveva 4 anni) e in braccio zio Franco, che avrà avuto neanche un anno. Davanti al portone, invece, erano fermi mio nonno, sempre in tiro, vestito con abiti di sartoria e zio Pierino, 6 anni, con un completo alla marinara, così come si usava allora. Da zia Giulia c’erano cose estremamente affascinanti, che colpivano la mia fantasia di bambina: un’agrippina color giallo oro; un fascinoso tavolinetto da lavoro, pieno d’intriganti cassettini; un antico presepe sotto la campana di vetro, così come una sofferente Santa Lucia; uno specchio che nulla aveva da invidiare a quelli della Reggia di Caserta. Una volta la prozia mi mostrò dei mobiletti da bambola che conservava nel cosiddetto ‘mezzanino’, uguali ai mobili di casa: un vero capolavoro, così come le bambole con il volto e gli arti di porcellana. Trasferendosi in tarda età in una casa di riposo e già affetta da ateriosclerosi, zia Giulia dimenticò molte cose nel suo vecchio appartamento, fra cui il contenuto del mezzanino, che i successivi inquilini si guardarono bene dal restituire. Intorno a noi, la Nocera color seppia conservava ancora le sue tradizioni. Una su tutte mi è rimasta nella mente: il mercatino del pesce del 24 dicembre sotto casa, al Mercatiello, con i pescivendoli che si conquistavano la postazione già intorno alla mezzanotte e le cantilene urlate per attrarre i clienti. Mi turbava tanto lo sgusciante groviglio nella vasca dei capitoni e solo mia madre gradiva mangiarli. Quando arrivava mio padre, con una fornitura di pesce stile ristorante, cadeau dei suoi clienti del Mercato Ittico di Napoli, le donne di casa si mettevano all’opera per pulire questa immensa dotazione: non mancava la sogliola per noi bambine, piuttosto renitenti a mangiare ogni altro tipo di pesce, pur bombardate da mestoli di ‘olio di fegato di merluzzo’ come ricostituenti naturali. Una tavolata post natalizia mi è rimasta particolarmente impressa, Era la sera del 26 dicembre 1959. Ero stata messa sull’avviso che stava arrivando ‘il fratellino’ e nostri ospiti erano gli zii di Como. Ero letteralmente abbacinata dalla zia, moglie del cugino di mamma, valente medico, che era una ex mannequin di Dior e che, uscita per il Corso di Nocera trascinando con sé ben 4 cani bassotto, aveva dato da parlare ai curiosi per un mese intero (un po’ come quando io portai a prendere un rinfresco al bar Ideale il principe ereditario dell’Afghanistan). 
Ricordo ancora che nel mio piatto c’era il sartù di riso e le esclamazioni di delizia degli zii. Ad una certa ora, cascando dal sonno, mi diedero il quotidiano quadretto di cioccolato bianco ‘Casa mia’ e mi portarono nella culla. Dormivo talmente pesante che non mi accorsi che, nella notte, mi traslocarono dalla mia culla Reguitti ad un letto in un’altra stanza. Mi svegliai spaesata e mi annunciarono che, nientemeno, mi era nata ‘la sorellina’, così avrebbe potuto giocare con me. Piombai in camera dei miei genitori benintenzionata a vedere quella che io mi immaginavo come una nuova bambola, ma mi trovai di fronte a una scena per me fortemente traumatizzante (all’epoca, i genitori, della psicopedagogia infantile se ne facevano una pippa). Installata come la Zarina di tutte le Russie nella mia culla c’era una piccola Budda con un ricciolo in fronte e folti capelli neri che se la dormiva della grossa. Ho avuto madre e zia piuttosto ingenue, non potevano immaginare la mia reazione fulminea. Come un falco, mi avventai sulla bebé – ci credete, me lo ricordo come se fosse ora! – e abbrancai la manina stretta a pugno, piantandovi un morso come una cannibale. Mi piacevano più le bambole che avevo ricevuto dal Bambin Gesù il 25 mattina!

 

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