Quando a decidere se un uomo era accettato in casa era un caffè. Le tradizioni passate: quando per innamorarsi bastava uno sguardo, e per uscire insieme ci voleva “la candela”

di Anna De Rosa


Era un caffè amaro o zuccherato a decidere, nel secolo scorso, se un fidanzato era stato accettato o meno dalla famiglia di lei come corteggiatore. Abbiamo incontrato la signora Antonietta che ha raccontato per i nostri lettori la “procedura” da seguire dal momento in cui un giovane si innamorava ed iniziava la corte alla donna amata a quando coronavano il loro sogno d’amore con il matrimonio.

Il corteggiamento (come spesso capitava) avveniva a distanza: il pretendente, per incontrare la sua amata, faceva in modo di incrociarla per strada o dinanzi la chiesa, oppure di passare spesso davanti casa sua o di trovare qualche amica in comune che facesse da tramite. I giovani erano soliti portare una serenata sotto le finestre, con l’accompagnamento di un concertino. Se l’omaggio era gradito, la bella restava dietro le persiane e magari si mostrava fuori, altrimenti si spegnevano le luci e si chiudevano le imposte. Le canzoni più frequenti erano “Mmiez’’o grano” o “furastera”.
Dopo che l’amata lo aveva incoraggiato a provare quel forte sentimento, il pretendente si presentava ai genitori di lei, dichiarando le sue intenzioni ed esponendo le sue referenze. Questo compito, in alcuni casi, poteva essere affidato a parenti o a qualche donna anziana vicina alla famiglia. Se la famiglia accettava il corteggiatore, si stabilivano i patti economici e la probabile data del matrimonio.
Nello stabilire le spese, a carico dello sposo erano, solitamente, la casa e il mobilio; alla sposa toccava, oltre la dote, quando c’era, il corredo, da lei stessa preparato a partire dall’adolescenza, e il pentolame. Più era vasto il corredo, più si poteva auspicare a contrarre un buon matrimonio. Il matrimonio, talvolta, poteva esse combinato tra due famiglie tramite una “mezzana”, o dal “sensale”.
Era usuale, nella piccola borghesia, dichiararsi alla donna e fare la conseguente richiesta al padre attraverso lettera. Questa veniva composta sulla falsariga di aiuti contenuti in un libro apposito: “Il segretario galante”. Dopo che il fidanzamento era stato accettato dalla famiglia, i due promessi potevano vedersi o a casa della ragazza o uscire per una passeggiata, ma sempre rigorosamente in compagnia della madre, o di un parente che, come si diceva, “teneva ‘a cannela”.
Il matrimonio era solito avvenire di domenica pomeriggio. Non si utilizzavano bomboniere ma solo un fazzoletto con dei confetti, che gli sposi portavano qualche giorno prima a parenti e amici, con un cartoccio di dolci. L’unione matrimoniale si officiava nella parrocchia o nella chiesa più vicini alla casa della sposa. Solo per alcune famiglie autorevoli la cerimonia veniva celebrata nella cappella di casa. Non si usavano addobbi sfarzosi in chiesa, né abiti succinti, per gli invitati bastavano gli abiti della domenica.
La cerimonia non era dissimile da quella odierna: lo sposo attendeva fuori dalla chiesa la sposa, che veniva accompagnata dal padre o dal fratello. Terminata la funzione ci si recava a casa degli sposi, dove ad attenderli c’era la madre di lui con un piatto di confetti, chicchi di grano e fiori, che doveva rompere ai piedi dei nuovi coniugi (se il piatto non si rompeva era di cattivo auspicio per la coppia) pronunciando: “Puozz’esse l’aurio d’’a casa ro’ figlio mio!”, “Puozz’esse l’aurio ra’ casa mia!”: questo era simbolo della rottura e dell’abbandono delle usanze della vita precedente per seguire quelle della nuova famiglia.
Ora gli sposi potevano ritirarsi in casa e consumare il matrimonio. Sotto il materasso del letto nunziale la suocera aveva posto una falce o coltello o un paio di forbici, per allontanare il malocchio e per assicurare da subito il concepimento di un maschio. Sotto il cuscino, inoltre, aveva anche posto un pannolino, che doveva servire per raccogliere la prova della verginità della sposa. Questa, poi, restava chiusa in casa per una settimana ( gli “’otto juorne r’a’ zita“) poi faceva “‘a primma ‘asciuta”, recandosi in chiesa, dai suoi genitori e infine dai suoi suoceri.

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