Il lavoratore che rivolge al superiore parole insolenti non può essere licenziato. Egli non pone in essere alcuna ribellione nei confronti del datore, purché l’episodio non si ripeta
di Danila Sarno
A volte un capo può rendere difficile la vita dei propri dipendenti. Straordinari non retribuiti, sfuriate immotivate e ferie non concesse potrebbero mettere a dura prova perfino la pazienza del lavoratore più stacanovista. Anche se il rapporto lavorativo si basa su una scala gerarchica, è essenziale esigere rispetto.
E se il boss non cambiasse atteggiamento con le buone, niente paura: per la Corte di Cassazione si può addirittura mandarlo “a quel paese” senza rischiare di essere automaticamente licenziati, a patto che l’episodio non si ripeta per più di una volta. Al massimo si potrebbe essere assoggettati ad una misura disciplinare, ma non a carattere espulsivo. Si tratta infatti di un gesto che per i giudici è “inidoneo a dimostrare una volontà di insubordinazione e di aperta insofferenza nei confronti del potere disciplinare organizzativo del datore di lavoro”.
La pronuncia è stata resa con la sentenza numero 10426 del 2012, a seguito del ricorso proposto da una società contro la decisione della Corte d’Appello di L’Aquila che aveva annullato il licenziamento intimato ad un dipendente per aver rivolto ad un suo superiore gerarchico un’espressione gravemente ingiuriosa, aggressiva e discriminatoria, in quanto indirizzata ad una donna. Dalle prove era emerso che la frase incriminata era stata resa in un contesto scherzoso e non conflittuale, preceduta da battute amichevoli e non pronunciata direttamente nei confronti del superiore, che si trovava a circa 15 metri di distanza. Per di più tra i due non vi erano mai stati altri scontri verbali. Considerato che, per il caso in questione, la contrattazione collettiva “prevede come sanzione il recesso solo se il diverbio litigioso è seguito dal ricorso a vie di fatto nel recinto dello stabilimento e se rechi grave pregiudizio alla vita aziendale”, la Suprema Corte ha sostenuto che il comportamento dell’uomo, seppur “spiacevole ed inopportuno, non sia di tale gravità da poter compromettere il rapporto fiduciario tra le parti”. Per farla breve si sarebbe trattato di una mera intemperanza verbale, per cui la società è stata condannata all’immediata reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente.
Certo, per quanto possa essere stuzzicante dire al proprio capo ciò che si pensa senza subire gravi conseguenze, sarebbe preferibile mantenere un certo autocontrollo ed evitare di abbandonarsi alla foga del momento, eliminando qualsiasi possibilità di un avanzamento di carriera.