Gli atti ossessivi derivanti dalla diffidenza verso la propria metà integrano il delitto di maltrattamento familiare, poiché sostanziano una situazione di vessazione psicologica

di Danila Sarno


Nulla è più ambivalente della ”gelosia romantica”, sentimento che si concretizza in un aumento del desiderio nei confronti della persona amata, associato a collera, paura della perdita ed ostilità. È lecito chiedersi cosa accada quando essa diventa tanto patologica ed eccessiva da provocare sofferenza morale a chi la subisce. Per la giurisprudenza si è colpevoli sul piano penale.

Lo ha specificato la Corte di Cassazione che, con sentenza numero 20126 del 2015 della sesta sezione penale, ha annullato l’assoluzione dal reato di maltrattamenti familiari di un uomo che, con i suoi atteggiamenti assillanti e maniacali, aveva fortemente limitato la vita quotidiana e professionale della moglie. Aggressioni fisiche, controllo degli spostamenti, ripetuti insulti, ispezione del telefono per ricercare tracce di relazioni extraconiugali, pretesa di abbandonare il lavoro di hostess perché “non adatto a donne per bene” sono soltanto alcuni dei soprusi che la donna ha dovuto tollerare.
Il “maltrattamento contro familiari e conviventi” è sanzionato dall’articolo 572 del codice penale: si tratta di un reato che consiste in una serie di atti prevaricatori e oppressivi, reiterati nel tempo, capaci di provocare sofferenza fisica o morale e di impedire il pieno sviluppo della personalità della vittima. Tale delitto non è integrato dagli occasionali episodi di violenza.
Nel caso di specie la Corte d’Appello di Palermo aveva riconosciuto che in effetti la vita della coppia era molto litigiosa a causa della diffidenza del marito e, tuttavia, essa aveva reputato mancanti sia il requisito dell’abitualità sia l’elemento della consapevolezza dell’imputato di cagionare alla moglie un turbamento psichico, considerando il reato di maltrattamenti insussistente.
Tale decisione è stata però riformata dalla Suprema Corte a seguito del ricorso proposto dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo, che aveva lamentato l’errata interpretazione delle dichiarazioni rese dall’offesa e dai testimoni: essi infatti avevano concordemente raccontato di “plurime condotte violente intimidatorie” dettate da gelosia morbosa, e dunque integranti il requisito dell’abitualità.
La Corte di Cassazione ha colto l’occasione per ricordare l’esistenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale per il quale “il reato di maltrattamenti in famiglia è integrato non soltanto da percosse, lesioni, ingiurie, minacce o privazioni, ma anche dagli atti di vessazione psicologica, ispirati da una gelosia morbosa, che si risolvano in una durevole sofferenza morale”.

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