Sconcerto per la recentissima sentenza della Cassazione:  la cessione di materiale pedopornografico può essere sanzionata solo se le immagini o i video sono realizzati da persona diversa dal minorenne raffigurato

di Danila Sarno

La pornografia minorile è un reato, è risaputo. La norma incriminatrice è l’articolo 600 ter del Codice Penale, introdotto nel 1998 per “combattere lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù”.

Tale disposizione è stata oggetto di diverse variazioni, rese necessarie dai dubbi ermeneutici scaturenti dal testo originario. E risale proprio ad alcuni giorni fa la sentenza numero 11675, con la quale i giudici della Suprema Corte hanno avuto occasione di effettuare un’ulteriore precisazione interpretativa a riguardo. Il caso, deciso dal Tribunale per i minorenni dell’Abruzzo, riguarda una ragazza non ancora diciottenne che, dopo aver prodotto degli autoscatti piuttosto spinti, li aveva spontaneamente ceduti a degli amici, i quali a loro volta avevano fatto circolare le immagini.
La Corte ha ricordato che l’articolo 600 ter del Codice Penale al primo comma punisce chiunque, utilizzando minori di anni diciotto, realizza materiale o spettacoli pornografici; il comma quattro, invece, condanna l’offerta ad altri, anche gratis, del suddetto materiale. Seguendo la strada già tracciata da un importante precedente affermato dalle Sezioni Unite nel 2000 e collegato alle convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che presupposto logico e giuridico per l’applicazione dell’articolo 600 ter è che “l’autore della condotta sia soggetto altro e diverso rispetto al minore da lui utilizzato, indipendentemente dal fine (di lucro o meno) che lo anima e dall’eventuale consenso, del tutto irrilevante, che il minore stesso possa aver prestato all’altrui produzione del materiale o realizzazione degli spettacoli pornografici”. Tali requisiti di alterità e diversità, dunque,  non possono dirsi esistenti se le foto o i video sono creati volontariamente e con consapevolezza dallo stesso minore. In egual modo va affermato che il comma quattro della norma certamente sanziona chi “offre o cede ad altri, anche a titolo gratuito, il materiale pornografico”, ma purché si tratti di una persona diversa dal minorenne rappresentato, distinguendo l’utilizzatore dall’individuo utilizzato.  
La sentenza choc dimostra come la legge non riesca a predisporre un sistema sanzionatorio effettivamente efficace e che possa far fronte alle innumerevoli sfaccettature del fenomeno pedopornografico. Evidente è l’esigenza di risolvere il problema a monte, infondendo nei ragazzi una maggiore responsabilità e coscienza dei rischi che scaturiscono dalla condivisione virale dei selfie.

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