Una recentissima sentenza della Suprema Corte, datata febbraio 2016, amplia la franchigia di privacy telefonica riconosciuta agli utenti, che avranno finalmente uno strumento di opposizione alle chiamate moleste

di Rosa Soldani

Squilla il telefono. Prefisso insolito o numero sconosciuto. Chi sarà? E’ un operatore di call center. Queste poche battute sono sufficienti ad evocare in chiunque abbia un apparecchio telefonico in casa quella comune sensazione di fastidio mista a rassegnazione che, siamo sinceri, si prova quando dall’altro capo del telefono comincia il lungo elenco di offerte commerciali.

Un discorso sciorinato con tono sicuro e gentile rispetto al quale i più pazienti ed accondiscendenti si fermano ad ascoltare o, in caso estremo, dichiarano di essere di volta in volta la domestica, badante, figlio o figlia eternamente minorenni, i più irascibili tirano fuori il peggio di sé con buona pace degli operatori-lavoratori, deboli ed incolpevoli anelli di congiunzione tra aziende e pubblica utenza. Partiamo da qui: i call center possono contattare gli utenti se questi sono iscritti nei pubblici elenchi abbonati del telefono, poiché tale presenza include un consenso-assenso del soggetto ad essere raggiunto presso il suo recapito telefonico, a meno che non abbia provveduto ad inserire il proprio nome nel cosiddetto «registro delle opposizioni», vietando così l’uso del numero per fini commerciali. Talvolta, tuttavia, capita di ricevere chiamate «mute», nelle quali si avverte la presenza di un probabile interlocutore che resta, però, silente. Si tratta di episodi che possono suscitare timori se si pensa alla possibilità, per esempio, di malintenzionati che provino a testare le presenze domestiche. In realtà la ragione delle chiamate mute è semplice quanto sorprendente:  le aziende, per ottimizzare i tempi di lavoro ed eliminare le chiamate non produttive, come quelle in cui il padrone di casa è assente o già occupato al telefono, utilizzano piattaforme automatiche che inviano chiamate in numero molto superiore agli operatori di cui dispongono: può accadere, quindi, che tutti i telefonisti siano impegnati e che dunque non si riceva alcuna risposta una volta alzata la cornetta. Rispetto a questa fastidiosa questione è intervenuta la Corte di Cassazione che, con sentenza numero 2196 del 2016, ha vietato di fatto ai call center di effettuare chiamate di questo genere o, per meglio dire, ha stabilito che queste possano avvenire al massimo nel numero di una al mese, e non di più, in ottemperanza di una precedente direttiva comunitaria, la 58 del 2002. Il Codice della Privacy agli articoli 4 e 11 stabilisce, come sopra accennato , che la registrazione negli elenchi abbonati comporti tacitamente consenso alle chiamate dei call center. Il punto più cruciale ed innovativo della sentenza della Suprema Corte si incentra proprio su questo passaggio: se è vero che il consenso deve essere espresso o , comunque, si considera presunto solo in caso di iscrizione nei pubblici registri, in nessun modo i call center possono effettuare chiamate di telemarketing sui nostri cellulari, per i quali non esiste un dominio pubblico. Di conseguenza le chiamate a scopi commerciali sui telefonini sono vietate sempre:  in caso di mancato rispetto di tale prescrizione l’utente può, a sua difesa, utilizzare lo strumento della denuncia per violazione della privacy, da indirizzare proprio al Garante della privacy, soluzione che può adottare allo stesso modo nel caso delle ripetute chiamate «mute». In considerazione della tipicità della questione, un notizia utile da conoscere e ricordare!

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