La Cassazione ha assolto un uomo che, dopo essere evaso dal domicilio coatto a causa di una lite con la consorte, aveva chiamato subito i carabinieri per essere portato in prigione
di Danila Sarno
È risaputo che affrontare un matrimonio è complicato. Dalla fase “luna di miele” alle furiose battaglie casalinghe il passo è breve e, con il trascorrere del tempo, una felice unione rischia di trasformarsi in un continuo susseguirsi di litigi e diatribe. Ne sono ben consapevoli persino i giudici della Corte di Cassazione che, nella sentenza numero 44595 del 2015, hanno offerto tutto il proprio sostegno a chi preferisce andare in carcere piuttosto che continuare a vivere agli arresti domiciliari con la moglie.
È ciò che è accaduto ad un uomo di 39 anni, originario di Messina, condannato in primo grado a quattro mesi di reclusione (ai sensi dell’articolo 385 del Codice Penale) per il reato di evasione dagli arresti domiciliari, essendo stato trovato fuori dalla propria abitazione coatta al momento del controllo dell’Autorità di polizia giudiziaria addetta. A seguito di una lite con la moglie, infatti, il messinese aveva telefonato ai Carabinieri, informandoli di aver maturato la decisione di voler andare in prigione e che li avrebbe attesi vicino al proprio domicilio per esservi scortato. La Corte d’appello di Messina aveva confermato la condanna, in ragione del fatto che il motivo che aveva spinto l’imputato ad allontanarsi di casa non aveva alcuna incidenza sull’elemento soggettivo del reato, “potendo essere valorizzato unicamente ai fini della determinazione della pena”. Avverso tale decisione l’uomo aveva proposto ricorso, deducendo l’insussistenza del reato. Effettivamente, la Cassazione ha riconosciuto che l’obbligo posto in capo al detenuto domiciliare è quello di “rimanere nel luogo indicato e di non allontanarsene senza autorizzazione”. Tale imposizione risponde a finalità essenzialmente cautelari e garantisce l’esecuzione degli appositi controlli da parte dell’Autorità incaricata. Tuttavia, nel caso di specie, valutando il quadro d’insieme della condotta dell’imputato, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto possibile riconoscere l’assoluta assenza di offensività concreta del comportamento posto in essere, in quanto in nessun momento esso era stato tale da consentire di sottrarsi alle dovute verifiche degli addetti ai controlli. All’opposto, l’essere stato trovato nei pressi del domicilio imposto in attesa dei Carabinieri, in aggiunta alla manifestazione della volontà di assoggettarsi ad un regime cautelare addirittura più rigoroso, ha spinto la Corte ad ammettere l’irrilevanza dell’infrazione