Tra una discussione ed uno scontro tra più persone, che invece è reato penale, c’erano nel codice diverse ombre, chiarite dalla Suprema corte
di Virginia Vicidomini
Quello del dilagare dell’aggressività, soprattutto tra i giovani, è un fenomeno incontrollabile, sottoposto costantemente all’attenzione delle autorità e dell’opinione pubblica. Anche gli adulti non offrono un esempio positivo: dalla televisione, che esaspera la violenza verbale, alla politica, dove nemmeno i nostri parlamentari sono esentati da maxi risse collettive ed insulti.
I confini tra un semplice e banale litigio a una vera e propria rissa sono molto labili. Ma quali sono i presupposti necessari affinché si realizzi il reato di rissa? Il nostro codice penale tace in proposito, affermando all’articolo 588 che “chiunque partecipa ad una rissa è punito con la multa fino a 309 euro”.
Ci ha pensato la giurisprudenza di volta in volta a chiarire quelle che sono le condizioni indispensabili per la configurazione dell’illecito, affermando che “è sufficiente che, nella violenta contesa, vi siano gruppi contrapposti, con volontà vicendevole di attentare all’altrui incolumità personale” (Cassazione, sentenza 24630 del 15 maggio 2012).
Quello che si è posto spesso all’attenzione è il problema del numero dei partecipanti per la configurazione del reato: la Corte di Cassazione ha chiarito che “una delle parti in contesa può essere rappresentata anche da una sola persona purché si raggiunga o si superi il numero minimo di tre persone”. La Suprema Corte è intervenuta varie volte, tra cui nel maggio 2015 (sentenza 19055), respingendo il ricorso di un ragazzo, condannato prima dal Tribunale di Chieti, poi dalla Corte di Appello di L’Aquila per aver partecipato ad una rissa. Il ragazzo, arrabbiato per la scomparsa del suo casco da motociclista, si era rivolto ad un gruppo di giovani, evidentemente sospettando che tra essi vi fosse il ladro del casco. Nato un alterco con uno di questi ragazzi, esso è degenerato poi in lite con la partecipazione iniziale dei due, a cui si associarono ben presto gli amici. La Corte ha avuto qui occasione di confermare la sua precedente giurisprudenza, secondo cui l’illecito è configurabile anche nel caso in cui “i partecipanti non siano stati coinvolti tutti contemporaneamente nella colluttazione e l’azione si sia sviluppata in varie fasi e si sia frazionata in distinti episodi, tra i quali non vi sia stata alcuna apprezzabile soluzione di continuità, essendosi tutti seguiti in rapida successione, in modo da saldarsi in un’unica sequenza di eventi”.
Il dilagare di questi episodi crea una situazione di allarme sociale: i motivi originari sono spesso futili e sciocchi ma le conseguenze imprevedibili. Nei casi di lieve entità è previsto solo il pagamento di una sanzione pecuniaria, nei casi più gravi (se qualcuno riporta lesioni personali o viene ucciso) è prevista la pena della reclusione. La violenza giovanile, e con questo non si intende certo minimizzare il problema, continua però a rappresentare solo una piccola parte di quella riscontrabile nella società. L’aumento di fenomeni di aggressività e prepotenza è infatti un problema che interessa tutta la collettività. La soluzione? Agire a livello locale promuovendo la cultura del rispetto verso l’altro.