Quei giorni di festa di una bimba che abitava nel palazzo di tufo nolano, senza tv e con il grammofono tedesco sempre carico di quei gracchianti 78 giri
di Annamaria barbato Ricci
Sollecitata dal direttore e sulla scia della presentazione dell’edizione restaurata di ‘Amarcord’ di Fellini, anch’io mi faccio trascinare dalla mia propensione al ricordo, sintomo sicuro di rimbambimento.
Natale, poi, è un innesco perfetto per la memoria e dunque apro polverosi cassettini dell’infanzia per narrarvi il mio Natale di bambina nocerina.
Vado tanto indietro da cascare in un palazzo di tufo nolano edificato nel 1890 da un bisnonno materno dovizioso armatore e commerciante di legname, morto giovane per una peritonite galoppante, lasciando una vedova inconsolabile – la mitica nonna Teresa, gentildonna d’acciaio che presidiò il patrimonio familiare, trasmettendolo alle tre figlie superstiti e al figlio. Qui nacqui in maniera rocambolesca, vista l’assenza, all’epoca, di incubatrici e un parto precipitoso da gestosi gravidica. Fortunatamente, ebbi il buon gusto di venire alla luce in giugno e feci da cavia ad un po’ di pediatri locali (ma anche salernitani), che sussiegosi, decretavano alla mia primipara mamma che difficilmente sarei sopravvissuta. Non avevano fatto i conti con la mia testardaggine e col mio amore per la vita, tanto che sono qui a raccontarvelo.
Per tre anni e mezzo fui una specie di Principessa Tumistufi figlia unica e mia sorella fu così provvida da concedermi ben quattro Natali senza togliermi la scena, nascendo il 27 dicembre.
E’ di quel periodo che ho i ricordi più vividi, trattata come un’incontentabile divinità familiare alla quale tutto era concesso, dalla Tv che, all’epoca ce ne saranno state 20 in tutta Nocera, al presepe di legno intagliato della Val Gardena, una vera opera d’arte; fino al radiogrammofono tedesco perennemente acceso con i dischi preferiti, a 78 o, più tardi, a 45 giri.
Bambole e accessori per loro mi circondavano quando, al mio primo Natale su questa Terra, mi accomodarono su un plaid a quadri rosa e celeste su fondo panna o nel sediolone. Vari scatti di Foto Napoli – non c’erano macchine fotografiche domestiche e gli Iphone sono conquista di questi anni; i bebé borghesi avevano in lui il loro Goya – m’immortalarono come l’Infanta di Spagna che, con aria imbambolata e un po’ stolida, fissa un albero di Natale sommerso di addobbi in vetro soffiato e fili d’argento.
35 anni dopo, se accosto quella foto con una scattata a mio figlio, sembra una sorta di sosia, se si esclude il grembiulino rosa col coniglietto che era il mio marchio di fabbrica.
E poi c’erano i dolci di Natale di de Angelis, proibitimi dall’età troppo verde e l’insalata di rinforzo della mitica Celeste (anche questa off limits per una bebé). E gli struffoli di Zietta, ne vogliamo parlare?
Sappiate che, a doglie incipienti, mi sono rifiutata di andare in Ospedale – quello di Cava, esperienza da dimenticare, 34 anni dopo mi viene ancora il sangue agli occhi a pensare alla malasanità che all’epoca vi incontrai, specie in Neonatologia – perché in tavola troneggiavano sartù di riso e struffoli. Solo dopo aver consumato il mio fiero pasto, mi arresi all’evidenza e accettai di farmi ricoverare…
Torniamo a quegli anni gloriosi dell’infanzia, in una Nocera antica e suggestiva. Ricordo il mio quotidiano, le passeggiate per il Corso in carrozzina, assisa come, appunto, una Principessa Tumistufi, a stufarmi per davvero per le mille soste di Zietta e Mamma che incontravano conoscenti ad ogni 5 metri. Dei miei Natali rammento il privilegio dei doni in doppia sequenza: la mattina del 25 dicembre e quella del 6 gennaio, perché avevo due fornitori ufficiali di doni, quelli graditi ad una bimba, perché dei regali utili manco mi ricordo. Il Bambino Gesù e la Befana erano prodighi di attenzioni che, se avessi saputo leggere, avrei capito provenienti, per lo più, da un’unica fonte, il reparto giocattoli del negozio di Enrico d’Andria a Cava dei Tirreni.
Le foto d’epoca mi rimandano una pupattola con le guanciotte tonde circondata da bambole, una culla mini, il cavallo a dondolo di legno, la macchinina a pedali rosso fiammante, tazzine e chicchere varie. Ero felice e non lo sapevo…
Già all’epoca, però, diedi prova del mio carattere … donchisciottesco. La Parrocchia di San Matteo – dove credo fosse parroco monsignor Alfonso de Angelis, colui che intervenne di gran carriera per amministrarmi il battesimo in articulo mortis, da cui, pare, risorsi ristorata e affamata – aveva organizzato una riffa il cui primo premio era un’artistico Gesù Bambino, a grandezza naturale, su uno splendido, enorme cuscino di raso.
Per autopromuoverla, le associazioni di donne pie portavano il ’Bambinello’ di casa in casa, dove ci si riuniva per pregare al cospetto della statua.
Io, che, a due anni, di queste cose non ero pratica, ero semplicemente affascinata dal Bimbo divino, di cui mi era stata detta ogni meraviglia. Un po’, desiderando un fratellino, in quella mezz’ora che sostò a casa mia, in salotto, circondato da zie, prozie e amiche di Mammà, lo avevo appostato, accarezzandolo timidamente. Poi il rito finì e si decise di replicarlo in una casa vicina, quella di zia Ersilia Barbarulo.
La piccola processione di donne, me compresa, si trasferì in preghiera e zia Ersilia, vedova di un grande sindaco nocerino (e madre di un altro, barbaramente ucciso: ma quella è un’altra storia) ci accolse con grande affetto. Impegnate com’erano in rosari e giaculatorie, le signore presenti non si accorsero che io mi ero lanciata nell’esplorazione di quella casa sconosciuta. Fui attratta da una stanza da cui filtrava un filo di luce e dove percepivo, dalle voci, che ci fosse qualcuno.
C’erano, infatti, due giovanotti, suppergiù di una ventina d’anni più adulti di me, con dei libri aperti su una scrivania. Ma non studiavano, bensì dileggiavano zia Ersilia ‘e quelle altre bizzoche’ (può rimanere una frase tatuata nella mente di una bambina? Evidentemente sì): uno era il figlio, l’altro un compagno di studi, diventato sindaco molti anni dopo, che mai ha perso quel suo spirito cinico e sulfureo.
Ebbene, mi arrampicai su una sedia e mi lanciai a colpire con pugni e schiaffi gli sventurati, rei, ai miei occhi, di blasfemia. Poverini, quando si resero conto che l’assalitrice era una bambinetta isterica, iniziarono ad urlare che qualcuno venisse a prendermi.
Nella stanza piombò una torma di donne che si trovarono di fronte me in lacrime, che accusavo i due giovanotti stravolti di essere degli spregiatori del Bambino Gesù, da me ribattezzato ‘Pallidino’.
Insomma, neanche a due anni ero esente dalle mie crociate contro i mulini a vento e a chi, a mio avviso, offende i miei valori. Già allora non lasciavo presagire nulla di buono…
Il destino malizioso (o ‘Pallidino’?) poi mi ha portato a sposare, quest’anno, il cugino di colei che divenne moglie del mio inquisito…
Non so se fu per la mia crisi isterica o perché la sorte ci mise una mano, alla fine ‘Pallidino’ arrivò definitivamente a casa mia, perché alla riffa zio Pierino se lo aggiudicò. Qualche anno dopo, dovendo restringerci in un appartamento medio, ma non grande quanto le tante stanze del palazzo natio, ‘Pallidino’ si trasferì nella villa di un amico di mio zio, dove ebbe il posto d’onore in una piccola cappella annessa.
Ecco un assaggio dei miei Natali nocerini. Soddisfatto, signor Direttore? Auguri a Lei e a tutti i Lettori.