È la storia di un crimine contro l’umanità. Cosa rimane a distanza di venti anni? La giustizia negata ai sopravvissuti e alle famiglie delle migliaia di vittime

di Annamaria Norvetto

«Non possiamo più permettere ai giornali, alla televisione, ai libri di storia, di definire quanto accaduto a Srebrenica un massacro o un eccidio. L’unico termine possibile da usare è una parola che fa paura a tutti: genocidio». Lo ha dichiarato Luca Leone, giornalista e coautore del libro “Srebrenica. La giustizia negata”, nel corso dell’evento organizzato ieri a Nocera Inferiore, dal gruppo 261 di Amnesty International (Agro nocerino) in collaborazione con l’Arci Uisp “Antonello Simeon” e la Cooperativa Sociale Giovanile.

«Siamo qui stasera perché è fondamentale – ha detto il presidente dell’ Arci-Uisp “Antonello Simeon”, Michele Perilli – divulgare la cultura della memoria, nel ricordare gli episodi più nefasti della storia contemporanea». A introdurre l’incontro, Nicole Rizzano, rappresentante del gruppo 261 di Amnesty Agro nocerino, che ha spiegato l’importanza della petizione accompagnata all’evento. «Quello che chiediamo – ha chiarito la Rizzano- è di ottenere giustizia e di creare un fondo solidale per le famiglie che hanno perso i loro cari nei tragici e vergognosi eventi di Srebrenica».
L’11 luglio 1995 a Srebrenica, prende avvio a opera delle forze serbo-bosniache sotto il comando del generale Ratko Mladić, quello che il Tribunale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia ha definito il 19 aprile 2004, un genocidio. Diecimila e settecento bosniaci (in tre giorni), vengono torturati, trucidati, massacrati senza pietà, per la sola colpa d’esser nati musulmani. Alle donne spetta una sorte non migliore: carne da stupro tra un turno di massacro e l’altro. A guardare lo spettacolo e a contribuire alla folle mattanza, i caschi blu olandesi e, l’intera comunità internazionale, Onu compresa.
«La Bosnia – ha spiegato Leone – ha rappresentato per secoli una culla di civiltà laica e cosmopolita, il cui principale punto di forza era proprio lo scambio umano e culturale. Quando nel 1992 scoppia la guerra in Bosnia, essa viene definita dai giornali e dai libri di testo delle scuole, come una guerra civile o etnico-religiosa, scoppiata perché le parti e le componenti del mosaico bosniaco non potevano più convivere insieme. In realtà, queste sono solo giustificazioni costruite a tavolino per coprire un’aggressione armata, con lo scopo di annettere un pezzo di questo paese e con esso, tutte le sue ricchezze». Srebrenica, costituita fino al 1992 da circa 25.000 musulmani su circa 35.000 abitanti, era una macchia sul territorio bosniaco, che ricordava ai nazionalisti serbi e serbo-bosniaci la storica sconfitta di Kosovo Polje.  Oggi, a distanza di venti anni dal genocidio di Srebrenica, su migliaia di responsabili, meno di un centinaio sono stati processati e arrestati. Ai sopravvissuti e alle famiglie delle vittime, si aggiunge una sofferenza ancora più grande: la perdita della speranza che venga fatta giustizia. «Nei miei viaggi in Bosnia- ha concluso il giornalista e attivista dei diritti umani Leone – ho intervistato e raccolto testimonianze. Le famiglie delle vittime chiedono soltanto di essere ascoltate, di ottenere giustizia e verità, di poter piangere sulle ossa dei loro cari (per le famiglie e le donne più fortunate) sapendo di poter finalmente trovare pace. Ma non vi è pace senza giustizia».

Nelle foto di questa pagina, fornite dal gruppo 261 di Amnesty International, due momenti dell’incontro di ieri sera

Di Gigi Di Mauro

Giornalista con esperienza quasi quarantennale, è educatore e pedagogista clinico. Da oltre un ventennio si dedica allo studio della storia comparata delle religioni, ottenendo nel 2014 dal Senato accademico dell'MLDC Institute di Miami una laurea Honoris Causa in studi biblici. È autore di alcuni saggi, tra i quali uno sulle bugie di storia e religione

Lascia un commento