Gli spot promozionali del Bel Paese raccontano di modelli discriminanti e di genere. La donna è un oggetto di consumo disponibile all’uso
di Annamaria Norvetto
«Abbiamo osservato quasi ventimila campagne (tv, radio, affissione, stampa e banner) in quattro diversi periodi dell’anno. Le abbiamo osservate e catalogate, con lo spirito del naturalista, in categorie descrittive e prive di un giudizio etico o morale.
Dalla ricerca sono derivate dodici categorie per la donna e nove per gli uomini». Lo sostiene Massimo Guastini, presidente dell’Art Directors Club Italiano (Adci), coordinatore dell’indagine “Come la pubblicità racconta gli italiani”, condotta insieme a Nielsen Italia e al Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bolo¬gna.
Lo studio ha osservato quanto la pubblicità italiana riveli un’autentica ossessione per stereotipi ormai tollerati, in cui la donna è mero simbolo di passività, sottomissione, disponibilità sessuale. «La pubblicità italiana – afferma Guastini – è sessista non tanto e non solo per come rappresenta il corpo della donna, ma anche per come tratta la testa delle donne. È sessista perché non racconta donne e uomini in modo paritario. Quando rappresenta la donna, ne racconta soprattutto la fisicità in chiave seduttiva. L’81,27% delle donne narrate sono infatti: “modelle”, “grechine”, “sessualmente disponibili”, “manichini”, “ragazze interrotte” (rappresentate da “pezzi anatomici”) e “preorgasmiche”».
Le campagne pubblicitarie sono veicolo di comunicazione e nascono con lo scopo di convincere e persuadere chi guarda, attraverso l’uso di immagini e parole studiate a tavolino. Quali aggettivi trasmettono sulla donna gli spot italiani? Superficiale, casalinga, emotiva, magra, bellissima, seducente, sessualmente vogliosa. Un quadro che non sembra corrispondere alla realtà sociale italiana.
«Da 20 anni – aggiunge il presidente dell’Art Directors Club – le donne si laureano più, prima e meglio degli uomini. (fonte Miur). Ci sono poi disparità narrative quasi esilaranti. Le donne “disponibili sessualmente” sono, per la pubblicità italiana, ventidue volte più frequenti degli uomini con lo stesso tipo di disposizione. Tale disparità, nel desiderio sessuale narrato dalla pubblicità, rispecchia davvero la realtà? Le donne “disponibili sessualmente” e le “preorgasmiche” sono complessivamente quarantadue volte più frequenti delle donne sportive».
Il messaggio che si continua a inviare alle ragazzine è che convenga loro investire sul fisico e sulle doti seduttive molto più che sul cervello, sul lavoro, sull’indipendenza economica ed emotiva. Diversamente, l’immagine stereotipata dell’uomo evocata dalla pubblicità del Bel Paese, è quella di un professionista, di uno sportivo possente e virile.
«E gli uomini? Il 66% degli investimenti pubblicitari – sostiene Guastini – destinati alla rappresentazione dell’uomo, lo raccontano come “professionista”. In un mese si sono quindi spesi 33.567.194 euro in campagne pubblicitarie che rappresentavano, come modello di riferimento maschile, l’uomo che si realizza attraverso le sue competenze e la sua determinazione».