Certo che ce ne sono di cose intollerabili in questo pazzo mondo. Di quella intollerabilità che supera la pur estesa capacità di assorbimento degli esseri umani e che, secondo alcune scuole psichiatriche, sarebbe all’origine di alcune forme psicogene di schizofrenia.
Se n’era avveduto già Giovanni l’Evangelista, se fu veramente lui l’autore dell’Apocalisse, quando nei famosi Quattro Cavalieri simboleggiò la Guerra, la Fame, l’Epidemia e la Morte. E se ne avvide anche Shakespeare quando profeticamente fece elencare da Amleto le condizioni estreme di intollerabilità dell’esistere che spingono l’uomo a preferire il non essere all’essere: “le frustate e lo scherno del tempo, le ingiurie degli oppressori, le insolenze dei superbi, le ferite dell’amore disprezzato, le lungaggini della giustizia, l’arroganza dei burocrati e i calci che i giusti e i mansueti ricevono dagli indegni”, se non fosse per la paura di ciò che ci attende dopo la morte.
Ma in tempi attuali e più terra terra, se n’è formata un’altra di queste cose, che gli antichi non potevano prevedere: la Pubblicità.
Che volete da me, forse l’età mi ha reso intollerante più di quanto già non lo fossi di mio, non so voi ma io non la reggo più. Poi uno a certe cose ci fa l’abitudine ma se ci pensate su, è proprio una cosa da schizofrenia. Com’è possibile? Mentre vedi un film o ascolti un dibattito politico, va bè magari questo fanno benissimo a tagliarlo così ti risparmi una bella dose di castronerie, ma qualche volta l’argomentazione o presunta tale, qualunque essa sia, la vorresti seguire al completo, oppure una trasmissione d’arte, come quelle di quel genio di Philippe Daverio, con quadri musei architetture, o la storia del costume di un’epoca, le formazioni geologiche, le mutazioni degli esseri viventi, sia pure quel tanto poco che si può vedere in televisione, Paff! Tutto si ferma. Anche se stesse parlando Domineddio nel discorso della montagna, beati i poveri di spirito, beati coloro che hanno sete di giustizia, beati i mansueti, beati ecc. ecc., allo scoccare del minuto fatidico, il pupazzetto presentatore di turno, servo dei padroni possessori della ricchezza, che lo danno a mangiare, Paff! Pubblicità.
Che poi la chiamano pubblicità ma il suo vero nome è propaganda, termine che non si usa più perché vi è restata appiccicata un’accezione negativa, ricordo della propaganda di guerra e di quella dei regimi totalitari. Propaganda è infatti, secondo la definizione dei più recenti sociologi americani, “il tentativo deliberato e sistematico di plasmare percezioni, manipolare cognizioni e dirigere il comportamento al fine di ottenere una risposta che favorisca gli intenti del propagandista”, che sono vendere vendere vendere. E che racchiude sempre una forma d’inganno, per le notizie date in modo selettivo, distorto e suggestivo, menzogne e pure invenzioni. Ed è martellante, ossessiva, con messaggi ripetuti sempre uguali a distanza di pochi minuti finchè te ne senti oppresso e soggiogato e non te ne puoi liberare. Per non parlare delle chiamate telefoniche persino sul cellulare, come fanno a conoscere il numero? Violazione della privacy, disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, assoggettamento psicologico. C’è buona parte del codice penale.
E cosa fa il Garante della comunicazione? Nulla oltre a prendersi i soldi.
Il fatto è che come tramontarono gli dei, soppiantati dal nostro caro dio unico, sta per andarsene anche lui, soppiantato da un nuovo dio, il Mercato, ignoto e proteiforme, dunque neopagano, consanguineo di Plutone, Mida e zio Paperone, moloch creatore e signore della Borsa e delle muntinazionali, che abita in uno splendido ufficio tappezzato di dollari al duecentesimo piano di un grattacielo, circondato da donnine e lustrascarpe, alla faccia dei disoccupati e dei pensionati che “non arrivano alla fine del mese”. E lo Stato deve stare a guardare inerte, perché gli è assolutamente proibito di intervenire per pilotare l’economia e correggere le disuguaglianze sociali, se no si disturbano i sonni beati e tranquilli del dio Mercato, cioè di quelli che tengono i soldi.
Aldo Di Vito
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