Il concept del film di animazione è ambizioso: dar corpo a concetti astratti come le emozioni, i ricordi, la coscienza, trasformando l’interiorità di un personaggio in un coeso universo poetico
di Antonio Maiorino
Crescere è difficile, ma all’animazione della Pixar riesce proprio bene: diventeremmo rossi di rabbia se ad Inside Out, ultimo capolavoro del talento Pete Docter, venisse negata la candidatura agli Oscar, tanto s’è fatta brillante, ispirata, ingegnosa l’arte di raccontare per immagini.
Sarebbe bello vederlo in lizza, in realtà, nella categoria principale, quella dei migliori film: un bel modo per liquidare una volta per tutte un pregiudizio nei confronti del genere, ostinatamente negato a parole, ma ancora esistente nei fatti. Sì, perché oltre ad essere promosso a pieni voti, Inside Out mette in castigo dietro la lavagna una miriade di filmetti d’essai, di quelli che dilettano i critici ai festival (a partire dalla nostra Venezia) e gremiscono i cineforum. Lo farebbe con la stessa disinibita, intelligente spensieratezza, quella mistura di riso e pianto per cui ameremmo cento volte di più un film di Chaplin che un mattone cecoslovacco.
Crescere è difficile, dicevamo. Lo è per la piccola Riley, undici anni di vita felice e non sentir più quella gaiezza, dacché quello che ora preme è il disagio del trasferimento dal fatato Minnesota dell’infanzia alla frastornante San Francisco intrisa di smog; la pressione del coming of age che monta; quel chiassoso confondersi delle voci di dentro, materializzate nell’irresistibile brigata del Quartier Cerebrale: la gialla Gioia, la blu Tristezza, il verde Disgusto, la viola Paura e la rossa Rabbia. Altro che arcobaleno, però, visto che il cielo è grigio sopra la metropoli ed il mondo inside di Riley, coi genitori insolitamente distratti, sembrerebbe in procinto di collassare. Toccherà a Gioia preservarlo, con un buon lavoro di squadra – ed una tenera simpatia che squaglia.
Il concept di Inside Out è ambizioso: dar corpo a concetti astratti come le emozioni, i ricordi, la coscienza, trasformando l’interiorità di un personaggio in un coeso universo poetico. L’operazione riesce alla grande, ma, nonostante l’ombra di Freud, sarà il caso di bandire sin da subito i termini clinici: qui non c’è solo l’inarrivabile magistero tecnico con cui il team della Pixar confeziona la veste grafica del film, fondendo forma e contenuto. C’è di più: la cifra stilistica del regista Pete Docter arricchisce il consolidato mix disneyano di avventura, umorismo e thrilling, riuscendo a conferire un vivo senso di naturalezza ed umanità ad un prodotto pur così artato. Inside Out, in soldoni, non si limita a superare la concettosità con l’universo dello sguardo, bensì parla un linguaggio piano, di fresca universalità: a tanti capiterà di comprendere Riley, meglio, d’immedesimarvisi, di avvertire una vicinanza emotiva che sublima l’entertainment. Miracoli del genere, come già in Up, al buon cinema riescono in scioltezza. Per citare uno dei luoghi interiori della protagonista: benvenuti a Cineproduzioni Sogni.