Stefano Feltri parla di Università utili lanciandosi in una visione produttivistica e consumistica dello studio. Tiriamo le somme di una vicenda che stigmatizza alcuni settori della cultura

di Annamaria Norvetto

«Potrei dedicare molte righe alle repliche arrivate ai miei due post precedenti, a come i paladini del principio “bisogna studiare quello che ci piace e non quello che è utile a trovare lavoro”, commettano grossolani errori nel leggere i dati, sfuggano al problema principale che ho posto e si rifugino in citazioni autorevoli, perché ovviamente preferiscono il principio di autorità rispetto ad argomenti sostenuti da numeri». Risponde così, Stefano Feltri, vicedirettore de “Il Fatto Quotidiano”, alle critiche piombategli addosso in seguito ad alcune sue dichiarazioni raccolte in un articolo sugli studi utili, pubblicato qualche giorno fa, sul suo giornale.

Facciamo un passo indietro. L’articolo incriminato (a torto o a ragione, a deciderlo sarà la coscienza intellettuale del lettore), nei suoi apici argomentativi, recitava così: «Se poi volete comunque studiare filologia romanza o teatro, se ve lo potete permettere o se vi attrae un’esistenza da intellettuale bohémien, fate pure. Affari vostri. L’importante è che siate consapevoli del costo futuro che dovete pagare. Dal lato delle scelte collettive, cioè delle politiche pubbliche, dovremmo tutti chiederci se ha senso sussidiare pesantemente università che producono disoccupati[…]».
Ebbene: Feltri parla, sminuendola al livello di un futile ornamento culturale, di filologia romanza. Si tratta, in sostanza, di una scienza che analizza e studia le lingue neolatine e il loro sviluppo. Ora, l’italiano è una lingua neolatina. Se uno più uno fa due, la filologia romanza è una lente d’ingrandimento sulla consapevolezza e sulla conoscenza delle fondamenta del nostro sistema linguistico. Come in una perfetta equazione aritmetica (materia che piace tanto a Feltri), il sistema linguistico innesca l’essenza che rende tale una società: la comunicazione tra le persone.
Passiamo all’altro ipotetico “spreco” di studio annoverato nell’articolo di Feltri, il teatro. È una delle manifestazioni artistiche che accompagna da sempre l’esistenza dell’uomo, della cui natura è sublimazione e parodia. Come lo conosciamo nell’accezione occidentale del termine, il teatro affonda le sue radici nell’antica Grecia e poi nell’antica Roma: Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane, Seneca, sono solo alcuni dei principali tragediografi e commediografi della storia. Il nostro Eduardo ne parlava così: «Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri, nella vita, recitano male». Va da sé, quanto tutto questo sia molto lontano dall’essere mero ornamento o vezzo intellettuale.
È davvero scoraggiante che un uomo di cultura, come Feltri, si elevi a giudice dell’utilità e consigli,  a quei giovani là fuori, di barattare la propria felicità con una cifra. Che sapore ha una vita spesa a rincorrere soltanto ciò che è produttivo in senso consumistico? Siamo delle macchine o degli esseri umani? Per quanto ad alcuni piacerebbe far credere che il confine tra la macchina di produzione e l’uomo sia molto labile, la verità è ancora nei dettagli. E l’amore per quello che si sceglierà di fare ogni giorno della propria vita, è ancora il più importante dei dettagli umani.

Di Gigi Di Mauro

Giornalista con esperienza quasi quarantennale, è educatore e pedagogista clinico. Da oltre un ventennio si dedica allo studio della storia comparata delle religioni, ottenendo nel 2014 dal Senato accademico dell'MLDC Institute di Miami una laurea Honoris Causa in studi biblici. È autore di alcuni saggi, tra i quali uno sulle bugie di storia e religione

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