Come viveva la famiglia di un impiegato di fabbrica nel quartiere Lupino Secco, a metà del secolo scorso, nel racconto della professoressa Carla D’Alessandro
In questa sera festiva di primavera ho voglia di ricordare la mia infanzia lieta, vissuta nell’arco degli Anni Cinquanta. Bambina piccina, d’inverno vivevamo a Nocera seguendo i ritmi scolastici di una bambina d’allora. Nulla di superfluo, tutto d’essenziale. La scuola in un vecchio mulino alla periferia del paese. In un flash di ricordo, vedo un portone allagato di quella scuola e degli uomini che ci aiutano ad uscire su tavole di legno. Ricordo la mia casa… bella non grande ma con quella stanza con i mobili di mia nonna e quel leone con donna in stile liberty che la notte ci faceva paura, per quella lucernina posta davanti al quadro della Madonna delle lacrime di Siracusa. I miei fratelli, più piccoli di me, portavano i calzoncini corti di lana ed io avevo sempre belle vestine che mia mamma cuciva sulla sua nuova Singer, che ora sembra un pezzo da museo. Quando mi affacciavo alla finestra della veranda vedevo le altre palazzine Ina-casa uguali alla mia. La strada acciottolata, che d’inverno si allagava per mancanza di scarichi, ma quello era il ‘Lupino secco’! D’estate mia mamma preparava le valigie e a Giugno partivamo noi ragazzi con lei per le vacanze a Salerno. Allora, negli Anni Cinquanta, il mare salernitano era splendido, la spiaggia pulita e noi bambini ci divertivamo tanto. Mio padre, che era impiegato in una fabbrica conserviera, ci raggiungeva il sabato e la domenica. Ricordo ancora il mio papà di quegli anni: alto, bello, sicuro ed autorevole con noi ragazzi. Mia mamma minuta, bellissima, dolcissima, ma che non transigeva sulle cose che noi dovevamo fare. E quel costumino di lana rossa è ancora sulla mia pelle! Quanto lo odiavo, quanto avrei voluto farlo a pezzi, ma non c’era verso, quello era un regalo di una zia di mio padre, che viveva a Napoli. In quei tempi lontani non si poteva buttare un costume così. Per me bambina di sette-otto anni era solo un costume che pungeva sulla pelle! Non so perché mi son venuti in mente questi momenti. Non so perché! So solo che ho sentito il bisogno di scrivere, di raccontare quei lontani attimi. Era quella un’epoca particolare, la vita era vissuta con l’essenziale, non c’erano le ‘firme’! Noi ragazzini non potevamo chiedere, anzi eravamo educati a ringraziare Dio per ciò che si riceveva. A tavola, ricordo, che mio padre mi diceva di mangiar tutto perché durante la guerra si era potuto mangiare poco.
Nella cristalliera della mia piccola casa oggi, coperta da altre bambole, io conservo ancora… Pupetta la mia cara bambola di carta pesta. La prima bambola con il cuore, amata vissuta come se per me fosse quella sorella tanto desiderata ma non avuta. Pupetta con i suoi occhi celesti mi guarda e con la sua vocina antica mi chiama: ‘mamma’. Lei è la sola che mi chiami così, mentre quel monello di sette anni mi chiama solo per nome.
Sono una mamma anni Quaranta e posso dire di avvicinarmi al Duemila cavalcando gli anni Cinquanta. Dove arrivo ora? Il passato è l’unica cosa certa, il domani sarà tutto da scoprire. Questa sera, però, seduta nella mia poltrona, voglio chiudere gli occhi e ricordare il profumo della mia infanzia. Ricordare quei lontani Anni Cinquanta con una giovanissima mamma che mi cuciva belle vestine, dalle lunghe pieghe; e un autorevole papà che all’asilo, dalle suore, veniva a prendermi con la bicicletta, facendomi sedere sulla sediolina che aveva davanti. Così, anche se io ero piccolina, mi sentivo grande ed importante come non mi sono sentita più in tutta la mia vita. Per entrambi ero importante ed ancora lo sono nonostante la loro età, le varie vicissitudini e gli acciacchi, che un po’ li affliggono.
Si è fatto tardi, chiudo gli occhi e sommessamente il mio cuore, nel pensiero, li abbraccia con il più tenero di tutti gli abbracci.