L’Istat lo ha sancito ufficialmente: per la prima volta dal settembre 1959 il costo della vita è in discesa. Sono in molti a chiedersi se l’inflazione negativa sia un danno o un vantaggio. Lo abbiamo chiesto ad un esperto
Con il termine “inflazione” si intende un incremento generalizzato e continuativo del livello dei prezzi al consumo.
L’oscillazione dei prezzi in linea generale è la risultante di un mutamento nell’equilibrio fra domanda ed offerta di beni. Una maggiore offerta di determinati beni provoca un calo dei relativi prezzi ed una temporanea minore offerta degli stessi beni si tramuta in un rialzo del loro valore di mercato.
L’inflazione nel lungo periodo è un fenomeno di natura monetaria in quanto l’aumento dell’offerta di moneta superiore alla domanda stimola, a sua volta, la domanda di beni e servizi e la propensione ad effettuare investimenti (in immobili, azioni, obbligazioni, titoli di Stato), con innesco di circolo vizioso che porta a spinte inflazionistiche (aumenti dei prezzi) crescenti nel tempo.
Una stretta relazione è stata riscontrata tra tassi d’interesse fissati dalla Banca Centrale Europea (BCE) – e quindi tra quantità di moneta messa in circolazione in Europa – ed il livello d’inflazione (aumento medio dei prezzi di beni al consumo) a partire dall’anno 2000. I bassi tassi d’interesse della BCE a partire dal 2009 hanno generato, dopo un temporaneo aumento dell’inflazione negli anni 2011 e 2012, un progressivo sgonfiamento dei prezzi, fino all’attuale situazione caratterizzata dal fenomeno “deflazione”.
Analisi susseguitesi nel tempo hanno evidenziato che un ciclo dell’economia reale dei paesi occidentali è caratterizzato, statisticamente, da una durata media di circa 5 anni all’interno del quale si assiste ad una fase di crescita economica ed una fase di successiva contrazione, talvolta sfociante in recessione o, ancor peggio, in depressione. All’interno del ciclo economico è presente anche un ciclo inflazionistico in quanto l’attività economica reale incide profondamente sulla dinamica dei prezzi di beni e servizi.
La principale causa di innesco di spinte inflazionistiche in seno al ciclo economico è ascrivibile ad una maggior domanda di beni e servizi che si verifica nella fase di crescita. Questa a sua volta determina un incremento della capacità produttiva e, quindi, della forza lavoro impiegata, con conseguente pressione al rialzo su salari e stipendi.
La “deflazione” è l’esatto contrario dell’”inflazione”. Perdurante la deflazione, i prezzi dei beni di consumo tendono a scendere progressivamente e continuativamente.
In Italia, nel corrente mese di agosto, l’indice dei prezzi al consumo misurato dall’Istituto Nazionale di Statistica (Istat) nelle prime stime ha segnato un calo dello 0,1% rispetto allo stesso mese dello scorso anno. Il nostro Paese entra in deflazione per la prima volta da oltre 50 anni, cioè dal settembre del 1959. Allora, secondo l’Istat, la variazione dei prezzi risultò negativa dell’1,1%, in una fase di sette mesi di variazioni negative.
Il tasso di variazione annuale dei prezzi è in discesa da quattro mesi consecutivi. È soprattutto la componente energetica, in particolare quella legata al costo dei carburanti, a pesare sui prezzi di agosto e a trascinare l’indice in negativo. Secondo i dati provvisori dell’Istat, i prezzi dei beni energetici non regolamentati sono diminuiti dell’1,2% rispetto al 2013 (dal +0,4% di luglio), con la benzina in calo dello 0,9% e il gasolio dell’1,7%.
Ad agosto risulta ancora in deflazione anche il cosiddetto “carrello della spesa”, ovvero l’insieme dei beni che comprende l’alimentare, i beni per la cura della casa e della persona. Il ribasso annuo è infatti pari allo 0,2%, anche se in recupero rispetto al -0,6% di luglio.
E’ un bene o un male la “deflazione”? Il consumatore, prescindendo da altre considerazioni, può ravvisarvi un vantaggio visto il minor peso della spesa giornaliera. Da sottolineare che al momento i valori di deflazione sono relativamente contenuti. I prossimi mesi si incaricheranno di confermarne la tendenza e la consistenza.
Tra le ragioni che spiegano la deflazione vi è l’andamento dell’economia reale ed il conseguente livello di occupazione complessiva. In Italia a luglio 2014 è tornato a salire il tasso di disoccupazione posizionandosi al 12,6%, in rialzo di 0,3 punti percentuali sul mese precedente (dati provvisori Istat). I disoccupati italiani a luglio 2014 sono 3,22 milioni, in aumento del 2,2% rispetto a giugno (+69 mila). Sempre a luglio gli occupati (22 milioni 360 mila) diminuiscono dello 0,2% rispetto a giugno (-35 mila unità). Il tasso di disoccupazione giovanile a luglio 2014 è pari al 42,9%, in calo di 0,8 punti percentuali su base mensile. I disoccupati italiani tra i 15 e i 24 anni sono 705 mila.
E’ evidente che un numero minore di occupati dispone di un reddito complessivo più contenuto e destina minori risorse all’acquisto di beni e servizi i cui prezzi, di conseguenza, tendono a comprimersi causando “bassa inflazione” e poi, a seguire, “deflazione” con ulteriore rallentamento del sistema produttivo nazionale. Uno sbocco compensativo potrebbero essere le maggiori esportazioni di beni, ma questo non può ottenersi nel breve periodo.
Ne conseguono grossi problemi per lo Stato che, a fronte di costi non riducibili a breve per tenere in azione la macchina amministrativa, vede ridursi l’ammontare delle entrate (a minor ricchezza prodotta corrispondono minori incassi tributari). Da qui il crescente deficit di bilancio statale che contrasta, tra l’altro, con il recente impegno legislativo italiano (assunto anche in sede europea) del “pareggio di bilancio”.
Considerazioni a parte meritano l’attitudine e la capacità degli attuali governanti di gestire la complicata fase di arretramento dell’economia italiana. Grande affanno si registra sul fronte del debito pubblico nazionale che ha raggiunto i 2.165 miliardi di euro, con la conseguente esigenza di sborsare circa 90 miliardi di euro all’anno a titolo di interessi su Bot e BTP acquistati da investitori italiani e stranieri.
L’inflazione aiuta a comprimere nel tempo il valore del debito pubblico accumulato, a seguito della sua svalutazione misurata proprio dalla percentuale d’inflazione. In Argentina, tanto per fare un esempio, attualmente si viaggia con una inflazione annua di circa il 20%. Di conseguenza, con la stessa moneta, dopo un anno si acquistano beni e servizi decurtati in quantità di circa il 20%.
L’Argentina è uno Stato a sovranità monetaria per cui stampa “pesos” a volontà, come peraltro stanno facendo in questa fase storica, in misura più contenuta, gli Stati Uniti (dollaro), la Gran Bretagna (Lira sterlina), la Cina (yuan-renminbi) ed il Giappone (Yen). La BCE, da questo punto di vista, è praticamente ferma, per statuto e per volontà di alcuni Stati dell’Unione (Germania in primis).
La “deflazione”, al contrario, rende il debito pubblico più pesante e difficile da gestire e smaltire. Gli Stati con alto debito vedono generalmente con sfavore la deflazione e “lavorano” per ripristinare un livello accettabile di inflazione. La BCE attualmente è impegnata a conseguire nella sua zona di competenza – Unione Europea – un tasso d’inflazione medio pari al 2%.
Un caso da studiare è rappresentato dal Giappone che da venti anni lotta contro “decrescita” e “deflazione”. In questi lunghi anni i tassi d’interesse ivi registrati sono stati sovente di segno negativo. Circostanza abituale in Giappone: le banche prestano un determinato capitale in moneta locale (yen) e, alla scadenza, ricevono in restituzione dagli operatori finanziati meno di quanto erogato in partenza, proprio per effetto della deflazione. L’Economia nipponica, nonostante gli sforzi governativi, rimane tuttora depressa e non riesce a decollare.
Sàntolo Cannavale